18 luglio 2007

Un, deux, trois

«Se avrò coraggio mi lascerò andare, perduta.
Ma ho paura di quel che è nuovo e ho paura di vivere quel che non capisco -voglio sempre avere la garanzia di pensare che capisco, incapace come sono di abbandonarmi al disorientamento.
Come spiegare che la mia paura più grande è proprio: Essere?
E tuttavia è l'unica strada.
Come spiegare che la mia paura più grande è proprio quella di andar vivendo ciò che dovrà essere? Come spiegare che io non sopporto di vedere, solo perché la vita non è quel che pensavo, bensì altro-
Come se prima avessi saputo di cosa si trattava!
Perché vedere è una tale disorganizzazione?»

Clarice Lispector: “La Passione secondo G.H.”



Errava per le strade di Parigi.
Avanzava sonnambula nella luce estiva, immersa in pensieri di vita.
Dentro di lei v’era una battaglia, distacco dalla realtà all’interno di un’incognita ricerca, e vagava, osservando l’aria fra palazzi e strade, quasi scivolasse sulla pellicola d’un film. Il presente non le apparteneva, viveva attraverso un passaggio, su un raccordo, nastro che la stava trasportando da un’identità a un’altra, in un futuro sconosciuto quanto lei stessa. Quel piccolo essere arrancante per le vie di Parigi non era lei, era un sé fuori da sé stessa. Eppure, angoli d’anima che riconosceva si sospingevano nelle emozioni per farsi ascoltare.

Vagava, con la reflex a tracolla. Immagini le restavano nelle pupille, piccoli quadri, allora scattava riemergendo da chirurgiche analisi interiori, galleggiando sulla confusione di variopinte sensazioni che la catturavano con sfocate rimembranze d’infiniti
déjà vu.

Trentadue anni, ampia la strada davanti, i desideri si mescolavano a casaccio uguali a gettate di colore sulla tavolozza d’un pittore in cerca di forma concreta, e infinite fantasie respiravano ovunque fra i disegni liberty intorno. Passo su passo un dolore muto e sordo l’accompagnava in fermo assedio. Con distratta rassegnazione lei se lo conduceva per mano, ma per istinto tentava di sfuggire la sua prigionia.

Ripercorreva i segmenti spezzati del vivere, senza darsi pace per la personalità inquieta, così zingara da non riuscire a essere una donna come tante.
Guai, colpe, e rimproveri d’una zingara mal riuscita.
E ritornava, istantanea di luce e movenze, il pomeriggio in cui aveva avuto bisogno di spartire con l’amica, quasi una sorella, l’intenzione di separarsi dall’uomo sposato.
Decisione conquistata scandagliando nel buio pozzo del sé, fino a scoprirsi nell’assenza d’un’identità. Tappa ultima d'un viaggio che aveva chiesto e poi atteso i cambiamenti promessi. Amaro punto d'arrivo che accettava la necessità del passo da fare.
Immaginava il sorriso d’Elisa, l’affettuoso accoglimento, la rassicurante comprensione della loro intesa… Già pregustava l’espressione raggiante che, nel riconoscerle il traguardo, ne avrebbe proclamato la fiera condivisone con un «Brava! Era ora che reagissi! Sono felice per te, felice del tuo coraggio!»

Fu diversa la realtà.
Il viso d’Elisa s’era contratto divenendo duro, le aveva parlato quasi ritraendo il volto e con sguardo obliquo e basso, senza rivolgersi a lei di fronte:
- No, Mara! Non è giusto! Non sono d’accordo. Tu sei cresciuta in questi anni, lui no. Avete fatto un percorso, ma lui è rimasto indietro. Non è giusto che siccome tu sei cresciuta, ora lo lasci. No, questo è ingiusto! –


Mara scattò una foto all’insieme dei colori pastello di barchette accatastate su di un carretto, pronte per i bimbi che avessero voluto spingerle sull’acqua della fontana lì accanto.
A Parigi era dimentica d’essere mamma.
Era solamente Mara, trentaduenne errante per ampie strade assolate, tra le quali, in uno sconosciuto punto, gli occhiali da sole le erano scivolati dalla scollatura, permettendo ora alla luce di ferirle lo sguardo desideroso di pensierosa penombra.
Antiquari di libri, angoli odorosi di carta, fine atmosfera d’arte l’accarezzava, e ovunque la respirava pur senza salire fino a Montmartre.

Di Elisa aveva perso da anni le tracce.
Era un inventario quel pensare e allineare fatti, scelte, perdite, un inventario tra ciò che aveva intrapreso e costruito, e ciò che aveva lasciato o era finito, mentre, un piede dietro all’altro, inseguiva gli argini della Senna, s’infilava nei vicoli dietro a Notre Dame.
Poi fu davanti al Museo d’Orsay, e vi entrò.
Prese a vagare per le sale come aveva errato per le vie.
Cadde assorbita nelle pennellate impresse sulle tele, divenne tela, colore, forma, smarrita nei quadri in cui la sua anima si fuse.
Il dolore per l’abbandono l’abbandonò lì.
Tra la densità pastosa delle tinte sovrapposte, in caduta libera fra emozioni che non le appartenevano ma che l’agguantarono cullandola in oblio.

Cercò da bere e si rifocillò nell’ampio atrio del ristoro dove l’artistica vetrata d’un orologio illuminava lo spazio e il tempo.

Una bizzarra donna, abbronzata e di piccola statura, si avvicinò al suo tavolino sorridendole mentre piegava il viso verso di lei seduta.
-Pardon ?
Mara contraccambiò il sorriso allungando il collo in ascolto.
- Sei italiana?
- Sì!
- Oh, bene! Posso sedermi qui con te? I tavolini sono affollati, e a me fa piacere trovare qualcuno con cui discorrere!

Come poteva negare posto a quella signora? Il volto esprimeva simpatia.
La sconosciuta in fondo non avrebbe potuto alterare il suo navigare in oblio là. Nel nido dell’arte senza tempo.

- Sì, prego, si sieda…
- Oh, dammi del tu, dai! Mi chiamo Agnese. E tu?
- Mara.
- Sei giovane Mara! Non avrai neppure trent’anni! Sei sola a Parigi?
- In questo momento sì. Sono ospite da un amico, ci incontreremo stasera. Intanto visito l’Orsay, è un museo bellissimo!
- È vero! Non faccio che tornarci! Ogni volta che arrivo a Parigi vengo all’Orsay e ci torno per due, tre giorni di seguito… Mi piace stare qui… Ah! Ma non hai risposto sulla tua età! Io avrò vent’anni più di te… o chissà, anche oltre?
Sorrise Agnese. Era disarmante.
Mara tentava di spazzar via residui di diffidenza.
- Non ho voglia di parlare di me.
- Ho visto il tuo bel viso triste da lontano… Ma dimmi: cosa vuoi bere? Io prendo
un panachée, ne vuoi anche tu?
- Sì, grazie,
un panachée!
- Sai Mara, a me piace conoscere persone nuove… Mi piace viaggiare e ascoltare racconti. Raccolgo le storie di chi incontro. È interessante confrontare le scelte di ciascuno davanti ai bivi dell’esistenza. Inoltre mi piacciono le immagini, le tele degli artisti, i colori e la varietà del mondo. Sto raccogliendo il mio materiale, forse un giorno… chissà! Chissà cosa ne farò!
- Che strano…
- Cosa è strano? Ciò che faccio? ...Tu sei giovane, eppure hai qualcosa da raccontare, lo leggo nei tuoi occhi!

All’improvviso Mara s’accorse che le sembrava di conoscere Agnese da sempre, si sentì a suo agio. Oppure quel poco di birra limonata la stava rilassando?
- Qualcosa da raccontare? Non saprei. Qui ci sono le tele degli espressionisti che raccontano emozioni intense…
- E tu? Tu sei un’espressionista nella vita?
Rise Agnese, e la guardò come se la comprendesse.
Da dove era spuntata fuori quella donna? Era sconcertante. Senza rendersene conto le labbra di Mara sorrisero.
- Ah, ho colto nel segno piccola Mara!
- Sì, hai colto, è vero. Mi disorienti, hai intuito tu, e io sono un’ingenua…
- No, no, non sei ingenua. Sei una ragazza colma di vita e pensieri. Ciò trapela! E la tua tristezza è la scarsa fiducia che hai in te.

Mara abbassò lo sguardo sul bicchiere, le dita ci giocherellarono intorno, lo pose in obliquo, lo raddrizzò, iniziò a parlare fissando il liquido che si muoveva all’interno del vetro.
- La mia tristezza è la fine d’una storia con un ragazzo, l’ennesima fine. E stavolta è stato lui a decidere che era finita. Ora cammino in un mondo ovattato, fuori dal concreto. Mi sembra di passeggiare su sfilacciate nuvole, o di galleggiare dentro bolle di sapone, mentre la vita reale mi chiama e io non voglio tornare, perché mi fa troppo male.

Respirò profondamente. Poi alzò gli occhi dal bicchiere, li fissò sul volto della sconosciuta e disse:
- Ho una figlia di otto anni, ho un divorzio alle spalle, poi altre storie. Convivo con la sgradevole sensazione di non essere, ovvero, di non essere né carne, né pesce. Non mi riconosco in nulla. Chi sono? Cosa sono? Un titolo di laurea? Una mamma? Ero una moglie? Sono una figlia? Potrei essere una fidanzata, oppure un’amante? Ciò che io sono o sento, conta? …Quest’ultima storia è finita perché io sono una donna fuori dai tradizionali canoni!

- Non volevi parlare, e hai detto molto! Bello e triste ciò che esprimi.

Seguì un silenzio. La donna soppesò la merce di scambio. Poi con lentezza riflessiva riprese.
- Voglio darti qualcosa dei miei vent’anni in più. Quando si ha la vita davanti si cercano argini. Identificazioni, ruoli. Lo spazio che si apre è una sbalordente incognita, e fa paura nella sua libertà di scelta. Eppure l’indole non ha bisogno di etichette e titoli. Tu sei Mara, e ciò che sei dentro disegnerà la strada. Così è andata anche per me, a dispetto di quello che altri avrebbero valutato bene per una mia tranquilla esistenza! Sei madre perché ti piace esserlo, e continuerai a amare gli uomini nonostante le delusioni e gli abbandoni. Tu vivi e respiri nelle emozioni, non hai bisogno d'aderire ai ruoli che la società fornisce… Per adeguamento? Per tradizione o per abitudine? O anche per placare ansie e farsi riconoscere. Il valore del proprio esistere non si stabilisce ricalcando i tracciati di mappe già percorse e segnate. Anche se ci illudiamo di poter controllare ogni evento, a compiere la vera scelta è la nostra profondità. Ciò che siamo nel cuore fa da nocchiero. Non aspettare di essere riconosciuta per carne o pesce, tu vali per come sei. Se ti rimetti agli altri dipenderai da affetti falsati, fondati sulla tacita domanda: «Sei ciò che mi aspetto che tu sia? Se lo sei, bene, ti accolgo, altrimenti ti rifiuto». Tu ami la libertà! Altrimenti non saresti qui, persa fra le tele degli espressionisti a cercare sollievo alla tua anima fra emozioni d’arte. Non vuoi cornici per il tuo essere. Se cadessi in tale abbaglio, soffocheresti. La vita è il flusso che si compone sotto le nostre dita d’artista. Sono le orme lasciate nelle corse libere. È un sentire che ci fa risplendere lo sguardo e ci risuona nell’istinto. Non le staccionate che costruiamo per ingabbiare ciò che in noi pulsa e va emergendo in evoluzione, ritenendolo estraneo a quello che abbiamo già formato.

Agnese tacque e bevve l’ultimo sorso del suo panachée.
Mara l’aveva ascoltata con stordimento crescente.
- Mi sento un po’ confusa…
- Vieni, ti voglio mostrare un quadro!
Si alzarono insieme. Agnese con agilità si mosse tra la folla, Mara la seguì con difficoltà. Fra le teste delle persone riuscì a scorgerla ferma davanti a una foto. Si liberò dei turisti che le intralciavano il passaggio, e pensando d’averla finalmente raggiunta, s’accorse che era svanita.
Si trovò di fronte a una bellissima foto color seppia che raffigurava tre ragazze intente a giocare.
Lesse la didascalia: C. Hudson White, 1899 “Agnese, Mara, Elisa al gioco degli anelli”.

Mara si guardò attorno incredula. Di Agnese non v'era traccia, come di Elisa.