24 ottobre 2007

^^^^ PATCHWORK ^^^^


Oggi scrivo a mano libera, quasi fosse una lettera, o fossimo davanti a delle tazze di tea fumanti, tutti in circolo attorno a un tavolino.
Ci sono il miele, lo zucchero di canna, ci sono biscotti alla cannella e quelli allo zenzero, c’è una crostata alla marmellata di mirtilli e all’aroma di mandorla che ho cotto io.

Quale gusto preferite per il tè? Il Lapsang Souchong, l’Early Grey, o il Darjeeling? English breakfast? China Black? E lo volete con latte, limone o liscio?
A me piace il gusto muschiato e l’odore penetrante del Lapsang, è forte, ma proprio per questo.
C’è anche della cioccolata amara fondente… Scusate, non ho preso quella al latte, non la sopporto!

Scrivere… la passione di fermare un fluire costante di pensieri, un parlare d’un sé nascosto nella mente che sarebbe capace di stordire una persona che sta accanto, se dovesse ascoltare.

Per questa volta nessun racconto.
Un poco di stasi.
Mi guardo attorno nel mondo dei blogger.
A volte percepisco tensioni, anche tra le frasi più strette e sintetiche, colme di non detti.
A volte capto critiche sui contenuti dei blog.
Blog di diaristica o che si occupano del sociale, blog di poesie, o di racconti letterari, blog in cui si tratta dei mali politici, blog che parlano di blog o di iniziative di blogger.
Ce n’è per tutti i gusti, nel corso d’una passeggiata nel web a catturare ciò che più aggrada al nostro carattere, ricerca, o stato d’animo.

A casa mia, quando ero piccola, c’era una macchina da scrivere Olivetti,
di quelle che devi pigiare sui tasti con colpo secco per vedere il braccetto partire e lasciare la sua impronta d’inchiostro dal nastro al foglio. Sbuffando senza idee, mi mettevo a giocare con l’Olivetti, e non sapendo cosa scrivere, buttavo giù la prima banalità interiore:
«Oggi non so che fare, mi annoio, le mie amichette non possono venire a giocare qui da me, allora uso te, macchina da scrivere»
Per tamburellare queste poche righe ne passava di tempo! Ed erano zeppe d’errori. Andavo alle elementari, e fu così che imparai a usare la tastiera… Chi me l’avrebbe detto che non me ne sarei staccata più!

E poi il diario, altro compagno dei miei silenzi da bambina.
Silenzi obbligati.
Se qualcuno mi avesse chiesto: «Che c’è? Che hai?», avrei cercato delle risposte. In realtà mi è stato insegnato altro, ovvero a sopportare.
A dirla tutta, hanno tentato d’insegnarmelo, il mio carattere però è recalcitrante in questo.
E la scrittura mi ha tenuta per mano nella crescita, compagna fedelissima che con me s'è sviluppata. Voce viva dei silenzi e dei malesseri, degli amori più intensi e dei segreti più intimi.
Ho scritto innumerevoli lettere, di pagine e pagine, a amici e amiche lontane. Ho ancora il dito medio con il “callo” dello scrittore, anche se ormai, con l’avvento del computer, si è ridimensionato. Dal cartaceo all’elettronica, e le lettere corpose strizzate in buste e riempite di francobolli sono diventate e-mail.

Via via tutto si trasforma, e Daniela è diventata «danDapit» quando un’altra Daniela le ha chiesto: «Ma perché non apri anche tu un blog?», massì, così scrivo…

SCRIVO.
Scrivo ciò che sento, penso, le emozioni da trasformare in racconti, l’umanità da fotografare come un reporter senza “camera”, reporter di viaggi interiori.
E siccome oggi parlo attorno a una tavola imbandita, racconterò qualcosa che spesso mi viene chiesto sui nomi scelti per il blog.

Setalend.
Molti anni fa mi divertii ad anagrammare nome e cognome, ne risultò qualcosa di poetico che conteneva la parola “Seta”. Sì, ne risultarono due materiali: la Seta e un altro.
Il giorno che aprii il blog (due semplici passi per aprirlo!) alla domanda di come lo volessi chiamare, in un primo momento il vuoto, poi mi tornò in mente l’anagramma, così ne usai un pezzetto (Seta).
Anche “lend” ne è una parte, viene dal nome Daniela.

Avrei potuto chiamarlo “Setaland”, terra di seta, metà in italiano e metà in inglese, ma che orrore!
Divenne “Setalend”.


danDapit.
Nasce da un vecchio indirizzo di posta elettronica il cui nome era “dapit”.
Un giorno di vari anni fa un collega - visto che io ancora non ne ero capace- stava gentilmente aprendomi un account di posta, però nome e cognome miei erano già occupati. Avrei dovuto usare dei numeri, per i quali provo sincera antipatia. In fretta e furia mi feci venire in mente qualcos’altro: DAniela - mio primo nome, PI come Patrizia - mio secondo nome, T il cognome. DAPIT.
Quando ho aperto il blog ho aggiunto un “dan” a precedere, e ne è risultato danDapit, da cui ora si sono ulteriormente sviluppati: “Danda”, o “dandina”… E sorrido…

Ieri e oggi a casa con l’influenza, ho fatto come quando ero bambina, mi annoiavo, ho scritto sulla Olivetti.

Buona la crostata? Vi è piaciuta?

È arrivato l'inverno in un sol colpo, amo il sole, e il freddo mi atterra.
Questo tea caldo ci voleva…

Lo sapete che c’è un disegno di legge per tassare i blog?
L’ho saputo leggendo questo post di Spiderfedix!

(per visualizzare il disegno di legge: Clich here)


Un abbraccio e una tazza di tea a chi passa di qui!






14 ottobre 2007

Omaggio al Nonsense

- Ehi, Chuck!
Urlava con rabbia da un capo all’altro d’una piazza gremita di gente.
- Sai quella scheda telefonica, sì, quella sim card che t’avevo regalato l’inverno scorso e che a maggio m’hai restituito?
- Sì, ho capito! ...Ma perché strilli da laggiù?
- Sei un bastardo! Un bastardo! Me l’hai ridata senza neppure cancellare un sms che avevi ricevuto!
- Cosa vai urlando? Cosa urli qui in mezzo a tutta questa folla? È passato un sacco di tempo!
- Non importa quanto ne sia passato! Me l’hai restituita con un sms in memoria, senti qui: «Ma che hai sbroccato? Perché non mi vieni a prendere stasera…sulla tua torpedo bleeu?».
- Allora? Che vuoi adesso?
- Il numero non era registrato sotto un nome! Tre-tre-nove, nove, quattro, zero, due, otto, uno, sette… Di chi è questo cellulare? A cosa t’è servita la sim card che t’avevo regalato per le nostre telefonate? Eh??
- Dina! Sta’ zitta! Stai armando una caciara! Non c’è persona che non si sia voltata a guardare!! Quanto ti odio!

Dina trasalì e improvvisamente aprì gli occhi. Un incubo. Aveva il collo bagnato di sudore. Si alzò, andò in bagno ad asciugarsi, poi in cucina a bere dell’acqua.
Chuck era partito per alcuni giorni. …Voleva parlargli di quell’orribile sogno. No, anzi. Doveva raccontarlo alla psicoterapeuta, quale inquietante significato celava?
Andò al tavolo cercando carta e matita e appuntò il sogno finché lo ricordava nei particolari. Cosa diceva l’sms? Ah sì, la torpedo blu… e il numero…incredibile! Si rammentava addirittura la sequenza numerica: 339…940, 28, 17 come la leggesse ancora dal cellulare!
Controllò l’appuntamento con la dottoressa, era per le 11,30. Bene. L’ansia si placò. Tornò a letto con un bicchiere d’acqua in mano e l’asciugamano appoggiato sulla spalla.


Alle 11,30 pigiava fremente sul nome «Dott.ssa Anna Gambiolini».
- Buongiorno Dina, come sta?
- Sono abbastanza turbata dottoressa, ho avuto un incubo.
- Ah, bene, abbiamo materiale sul quale lavorare…
- Veramente, oltre al mio incubo, sono rimasta ancora più turbata quando ho sentito Chuck, il mio ragazzo…
- Dobbiamo lavorare sui sogni.
- Sì, infatti! La cosa particolare è che anche lui ha avuto un incubo, stamattina ce li siamo raccontati a vicenda!
- Ve bene, Dina… Però ho in cura lei, non il suo fidanzato.
- Dottoressa, so bene che tutto ciò è al di fuori del razionale, le assicuro però che questa particolare coincidenza mi scuote molta ansia…
- Se la può tranquillizzare, mi parli anche del sogno del suo “Chuck”…
- Lui non si chiama così, è il soprannome che gli ho dato io…
- Questo non interessa all’analisi, andiamo avanti.
- Chuck ha detto che ieri sera si è bevuto una birra fredda dopo cena, mentre era in digestione, perciò durante la notte si è sentito male…
- Dina, evitiamo particolari non pertinenti.
- Sto arrivandoci! Insomma, lui ha avuto un incubo contemporaneo al mio. Ha sognato un uomo in auto con la moglie, litigavano, e quello la buttava giù dalla vettura per poi cercare d’investirla. Chuck guardava la scena e vedeva che la donna restava a seno nudo sul cofano dell’auto, con i vestiti strappati nell’impatto. Poi si accorgeva che l’uomo nell’auto provava a investire anche lui…
- Non conoscendo il suo ragazzo non posso cogliere il significato di tali immagini, vogliamo parlare del motivo per cui la agita?
- Sì, ecco… Ho sognato che ero in una piazza grande, come un’antica agorà, affollatissima. Lì vedevo lui dall’altro capo della piazza, e da quella distanza prendevo a urlargli contro accusandolo forse d’avermi tradita. Gli rinfacciavo d’aver trovato sulla sim card il messaggino non cancellato d’una donna…
- Questa dimenticanza di cancellazione d’un sms la interpreta come qualcosa che l’inconscio vuole suggerirle? Ha forse sentore che il suo fidanzato vorrebbe farle sapere ciò che le ha precedentemente occultato?
- Non saprei… Aspetti, completo il racconto del sogno. La mittente del messaggio gli proponeva di passarla a prendere sulla sua “torpedo blu”. Nella piazza gli urlavo che era un bastardo, tutti ci guardavano, ero così furibonda che non mi importava! Pensi che stranezza: mi è rimasto impresso il cellulare che ho letto nel sogno, almeno mi sembra sia quello!
- Un numero che non ha dimenticato neppure cessando la fase onirica… – ripeté meccanicamente la psicoterapeuta, poi, quasi giungesse da altrove, replicò:
- La donna diceva «vieni a prendermi stasera sulla tua torpedo blu»? …La canzone di Gaber?
I lineamenti del viso della dottoressa si irrigidirono, il suo busto si raddrizzò legnosamente sulla sedia.
- Sì. C’è qualche indizio significativo?
- No, no… Interessante. Mi stava spiegando che le è rimasta impressa una sequenza numerica?
- Sì, eccola, l’ho scritta subito: tre-tre-nove, nove-quattro-zero, due-otto, uno-sette.
La dottoressa Anna Gambiolini parve impallidire.
- Ma non vedo collegamento tra il suo incubo e quello del fidanzato…
- Veramente io ho una strana sensazione… Guardi che caso! Ho sognato che lui mi teneva nascosto qualcosa e che aveva bluffato con me, mentre lui sognava una coppia che litigava e un uomo che voleva investire una donna. Nel suo sogno è espressa una forte aggressività nei confronti di quella donna, moglie o amante che fosse, ma la stessa aggressività l’ha diretta poi verso un uomo… Forse un altro se stesso?
- Brava Dina. – esordì la psicoterapeuta deglutendo - potrebbe sedersi sulla mia poltrona. È diventata abile nell’analisi dell’immaginario inconscio…
- Sono turbata, ci dobbiamo sposare... il sogno mi ha messo in allarme! Poi stamattina s’è aggiunto l’incubo di Chuck…
- “Chuck”. – ripeté la psicoterapeuta.
- Dottoressa? Mi sembra scossa anche lei… Come interpreta tutto ciò?
Anna Gambiolini si agitava con visibile disagio, lanciando insistentemente occhiate al pacchetto di sigarette sul tavolo.
- Eh, Dina, dal tuo sogno emerge che non hai fiducia in Chuck. Più profondamente direi che non ti vuoi sposare. L’inconscio sta inviando chiari messaggi. Non vuoi chiuderti nel vincolo matrimoniale, temi d’essere tradita. Dovresti riflettere prima di fare questo passo! Inoltre, osservando il sogno del fidanzato in particolare coincidenza col tuo, ma è solo una banale casualità, sembrerebbe che anche lui tema il passo del matrimonio… Mi dispiace, l’orologio dice che la seduta è terminata. Abbiamo già un appuntamento per la prossima volta?
La psicoterapeuta l’accompagnò alla porta.
Prima di uscire, con fare riflessivo, Dina precisò:
- Dottoressa, si è accorta che ha iniziato a darmi «del tu?»
- Oh! Mi è sfuggito… Mi scusi Dina. Buona giornata… -, ribattè Anna Gambiolini sorridendo affettuosamente e chiudendo l’uscio.
Finalmente sola. Appoggiata la schiena contro lo stipite scivolò con lentezza giù, fino a sedersi a terra. Non riusciva a capacitarsi. Il suo amante era il fidanzato di Dina. Era sotto shock. Come poteva essere che Dina avesse sognato il suo numero di cellulare? E la battuta sulla torpedo blu? Lei gliel’aveva fatta per l’acquisto della nuova auto! Cosa poteva saperne la sua paziente? Cosa stava accadendo nell’universo? Era l’inconscio collettivo? Quel bastardo! Non le aveva mai detto d’avere una fidanzata. Non solo, l’incubo di lui rivelava il desiderio di sbarazzarsi dell’amante, proprio di lei!

Suonò il campanello. Guardò l’ora. Le 12,30. Non aspettava altri pazienti. Forse il postino con una raccomandata?
Aprì la porta. Dina le era davanti ferma sul pianerottolo.
- Dottoressa, mi scusi, ho ricordato un particolare. Per un periodo Chuck si sbagliava quando doveva pronunciare il mio nome. Senza accorgersene, interloquiva spesso con un «Anna». Pensavo si confondesse con la sorella che si chiama così…
- Ah… ah… – La psicoterapeuta trattenne il respiro.
- Ascolti, desidero provare a digitare quel numero, ma voglio farlo qui con lei. Da sola mi sentirei stupida, posso? Ci metto un attimo, tanto non può rispondermi una Anna, sarebbe il colmo! Il mio era solo un sogno, che diamine!
Dina aveva già composto il numero e la Gambiolini era ancora con una mano in aria per fermarla, in un fallito intento.
Gli accordi d’una celebre “Per Elisa” presero a risuonare all’interno dello studio.
- Uh, dottoressa, sono veramente inopportuna! La stanno chiamando, forse è suo marito e io la sto disturbando. Vado…
Nell’attimo in cui Dina interruppe la linea e notò contemporaneamente che la musica nell’aria si spegneva, lo sguardo volò sulla targhetta del campanello: «Dott.ssa Anna Gambiolini».
Gli occhi cambiarono istantaneamente traiettoria, in un lampo furono sul volto sbigottito della psicoterapeuta.
Anna nel panico gridò: «Non sapevo nulla!», sbattendo la porta in faccia alla ragazza.


Dina non sposò Chuck. Sparì dalla sua vita. E smise di andare in analisi.

Anna Gambiolini tornò in terapia dal suo vecchio analista, cessando per anni di lavorare. Non si separò dal marito.

Chuck andò a vivere in un paesino dell’entroterra, si innamorò d'una fioraia e le regalò l’intero negozio. Fu con lei che scoprì l’amore, e per esprimerlo non gli sarebbe bastato un mazzo di rose, ma un luogo ricolmo di Fiori… sì.

03 ottobre 2007

°°° °°° VUOTO °°° °°°



Cercava il nome sul citofono, era la seconda volta che andava da lui, e la prima erano saliti insieme.
Sul pianerottolo la porta era socchiusa, l’aveva spinta e se l’era trovato di fronte sorridente. Subito dei baci, e dai baci le sue mani già le scorrevano con foga sopra ai vestiti, poi febbrili dentro, in un approccio senza dialoghi, schietto nella propria volontà.
Aveva pensato che avrebbero mangiato qualcosa insieme… Due parole e dei sorrisi, immagine d’un preludio all’unione delle emozioni sensoriali, perciò fra un bacio e l’altro gli aveva chiesto:

- Hai cenato?
Lui aveva risposto che non aveva fame senza arrestare l’impeto del suo trasporto.
Le dispiaceva accorgersi che non provava la stessa forza emozionale dei precedenti incontri, quando bocca su bocca l’impulso la rapiva divenendo torrente in piena nel corpo, sulla pelle.
Stavolta una sottile voce sussurrava profonda e lontana:
«Non così!».
La voce suggeriva, ma lei s’abbandonava, lasciando che le sue membra rispondessero alle carezze, al calore, agli odori. Per natura, per voluttuosità, per riconoscimento, per desiderio che andava salendo come onda…

Le piaceva far l’amore con lui. Di volta in volta lo svelamento d'una nuova trasformazione mentre le emozioni, scandite nel crescendo, danzavano l’intensità d’un fuoco ancora da scoprire. Lo stupore la riempiva nell’istante in cui emergeva per poi risuonarle come intima eco per ore e giorni.
Tra di loro percepiva il dono d’un sé, il darsi nel dedicarsi, l’amore fisico come filigrana nell’essenza d’una metafora. Densità e oblio, viaggio d’un piacere condiviso d’attimo in attimo.
Così era sempre stato.
Non quella sera.
Era lui diverso o lei?
Mancava il terreno su cui posare i passi, era l’eredità di un’assenza comunicativa. Momenti d’unione come isole nella vasta distesa d’un nulla.
Stavano divenendo appuntamenti sessuali senza continuità di parole. Svuotati di contenuto, privi di pensieri, ridotti all’osso di carne povera. Un uomo e una donna, due corpi. Negazione d’un resto.

Quando ormai sazi di pelle e sospiri avevano cercato un’altra dimensione, Elvira aveva saputo che la dispensa era vuota. Non aveva niente da offrirle, lui non pranzava mai a casa. La donna era cosciente di non potersi aspettare nulla, era solo un passaggio in attesa della compagna giusta.
Si davano baci, sorrisi e intensità in quel crocevia di tempi accordati, ma l’idea d’una birra in frigo lei non poteva valerla.
Anche la sua casa li aveva ospitati, e nell'antro d’una cucina affatto generosa, due piatti di pasta, una colazione, un paio di hamburger, o spicchi di delizioso melone erano via via comparsi con dolcezza conviviale.
- Ascolta… - aveva spiegato lei con voce di calmo respiro – …per una donna fare l’amore è un aprirsi, movimento in espansione. Quando tu sei dentro di me, non lo sei solo fisicamente, tu mi sei dentro con la tua vita, e io mi espando per sentirti, contenerti e darmi… Ma appena esco dalla porta, per te è già tutto finito, spranghi con saracinesche. Ogni uomo fa così, mentre ogni donna si espande per poi vedersi costretta a ricontrarre corpo, emozioni, sentimenti. Questo movimento fa male. Espansione e ritorno. Fa male.
Lui silenziosamente aveva annuito.

Se ne era andata prigioniera d'una povertà interiore con cui aveva cercato di lottare o far pace. Con quella aveva dormito e si era svegliata, gemella al cielo grigio e oppresso del nuovo giorno. Infine aveva girato lo sguardo verso ciò che aveva ricevuto, lasciato che l’affetto emergesse, aperto la finestra alla comprensione.
Nel programma serale c’era una festa, ci sarebbero andati insieme, occasione per rivedersi e condividere. Non doveva coltivare tristi visioni, né permettere alla sgradevolezza di dilagare.


Ai saluti d’arrivo Elvira respira aria scarica, e con poco si accorge che gli approcci comunicativi sono destinati a fallire. Lui glissa, si innervosisce al dialogo.

Variopinta e caotica la festa li accoglie sulla terrazza affollata di persone, dove si mescolano e si sovrappongono presentazioni, ferve vita, musica, balli. Le ore trascorrono tra volti mai visti, e quelli conosciuti, parole scarse, e ancora la mischia.
Lei immagina scambi d’affetto nel retroscena notturno, lieto fine d’un intimo appartarsi. Ma in auto lui avverte d’essere stanchissimo. Qualche bacio, e si ripetono tappe d’insofferenza verso discorsi da lui aperti e da lei portati avanti.
- Devo andare! Sono giunto al punto di non ritorno. Assolutamente devo andare.
Accoccolata su di lui, lei si raddrizza sul sedile, docile si fa riaccompagnare.
I pensieri le scorrono torvi, inarrestabili.
«Sono stufa! Che senso ha restare tra me e lui invasa dall’avvilimento d’essere fuori posto? Un peso, una mendicante che elemosina attenzioni in stentate briciole… Non posso valere quanto un buco che compensa dieci giorni di astinenza sessuale! Basta. Ora basta.»
Lo saluta freddamente.
- Che c’è? - chiede lui.
- Niente.
Sa che se provasse a spiegare lui aprirebbe lo sportello per buttarla fuori, inutile rispondere. Non è però capace d’indifferenza nel saluto tranquillo d’una falsa complicità.
Scende dall’auto, serrata nella decisione che è l’ultimo atto. Non lo rivedrà.

Si sbaglia, il cellulare le è caduto là sul sedile, e se ne accorge ormai a notte fonda. Non può avvertirlo, ogni numero è sul telefonino che non ha.

Il mattino seguente l’indice punta per la seconda volta, pigiando, il nome sul citofono.
Lui dorme ancora, non ha visto nulla nell’auto, deve scendere per controllare.
- Va bene, aspetta, dammi il tempo di vestirmi.
Elvira si rassicura, in cinque minuti sarà lì e insieme andranno in garage.

Dopo mezz’ora il dito di nuovo affonda sulla targhetta del citofono. Stavolta lui non risponde.
Sente sfaldarsi i resti d’una fiducia già troppo messa alla prova. È una corrispondenza inesistente.
Silenzio. Attesa. Entrano ed escono persone dal portone, il sole è alto, quasi mezzogiorno.
Finalmente lo vede emergere dalla rampa del garage alla guida dell'auto.
S'arresta e la cerca con lo sguardo.
- Ma quanto tempo ci hai messo?
- Ehi, ma guarda che è domenica mattina, di solito dormo fino all’una!
Elvira prende il cellulare dalle sue mani mentre risuona dei messaggi che all’aria aperta ora arrivano. Lui cerca di correggersi:
- Va bene, comunque puoi tranquillizzarti adesso…
Non aggiungono altro in piedi davanti al veicolo col motore acceso.
Non sa come salutarlo Elvira, nota rigidità e impaccio anche dall’altra parte. Teme che baciandolo sulle labbra, come le sarebbe istintivo, lui reagirebbe bruscamente. Opta per la sobrietà, gli avvicina il viso e gli deposita un bacio sulla guancia:
- Ok, ciao.
Lei si avvia verso il proprio parcheggio, lui rimonta in auto. Le passa accanto fissando dritto davanti a sé.


Nella propria casa Elvira chiude la finestra sulla sera ormai scesa. Lì accanto l’apparecchio telefonico inizia a trillare, riempiendo la stanza d’un suono acceso e vibrante.
- Elvira! Come sono felice… Sono innamorata! Sapessi che week-end bellissimo, lui è un uomo speciale!
- Sono contenta Maria, veramente! Sono contenta per voi…
- Vedi? Non tutti gli uomini sono uguali, esistono anche quelli che sanno dare!
- Ah, Maria… per piacere, non mi dire così! Lo so che esistono, lo so bene! Il problema è incontrarli. Incrociare la persona che ci corrisponde. Si tratta di buona fortuna nel trovare corrispondenza a ciò che noi siamo e desideriamo... Forse non riesco a riconoscermi valore, a questo corrispondono incontri in cui non ricevo valore…
- Cosa è successo? Come è andata per te, Elvira?
- Il cellulare è stato la mia giusta corrispondenza!
- Come? Che vuoi dire?
- Voglio dire che ciò che mi corrisponde è il vuoto. La dimenticanza, la perdita e un recupero in mezzo allo squallore.
- Mi dispiace… Mi dispiace…
- Anche a me, Maria… Anche a me…