30 ottobre 2009

Una favola per combattere

Il nuovo romanzo di Silvana De Mari, chirurgo e scrittrice
"Finché esiste la mutilazione sessuale non ci si può occupare d'altro"
Il Gatto dagli occhi d'oro che combatte l'infibulazione
di SILVANA MAZZOCCHI


E' STATA medico chirurgo e oggi si occupa di psicoterapia, ma è anche autrice apprezzata di letteratura fantastica dedicata ai ragazzi, per poter affrontare (con leggerezza) il male del mondo e per parlar loro d'amore, speranza e valori positivi. Silvana De Mari, ha vinto in passato premi prestigiosi e torna ora con un nuovo romanzo che racconta agli adolescenti gli orrori dell'infibulazione inflitta ancora oggi a tante bambine e a tante donne in omaggio a religione o cultura, ma all'unico scopo di privarle di ogni piacere.

Una storia scritta perché, sottolinea de Mari, "finché esiste l'infibulazione, non ci si può occupare d'altro". Così combattere tanta atrocità è diventata la sua battaglia e la scrittura la sua arma. A lei, che è stata medico volontario in Etiopia, è capitato di dover curare donne sfregiate, uccise dal dolore e Il gatto dagli occhi d'oro, dedicato ad Ayaan, "bambina torturata, regina guerriera", è il tributo con cui la scrittrice-medico intende preservare la memoria e aprire una nuova stagione d'impegno contro ogni mutilazione sessuale.

Libro sull'infibiluazione, ma non solo, Il gatto dagli occhi d'oro, da qualche giorno in libreria per Fanucci , è un romanzo che è sorprendentemente "leggero", magico, quasi una favola perfetta per i ragazzi, ma anche per gli adulti perché racconta la realtà senza sconti, e lo fa attraverso la lente del fantastico, schiudendo una porta alla speranza.

E' la storia di Leila, ragazzina italiana, povera , solare e intelligente che, con curiosità, ironia, e perfino con allegria, vive la sua vita quotidiana. Abita con la madre in una baracca, nei pressi di una palude; frequenta però una scuola borghese dove, fin dal primo giorno, viene emarginata e umiliata. Ma lei ha voglia di imparare , è ottimista e non si fa piegare: accoglie un cane trovatello che si rivelerà la sua fortuna e legge tutti i libri che le passa Fiamma, la prima della classe a cui è legata da sincera simpatia, per poi girarli ai suoi amici delle paludi, soprattutto a Maryam, la sua amica del cuore, musulmana e povera come lei.

Ed è proprio Maryam che un giorno la madre e le sorelle immobilizzano, per sottoporla allo sciagurato rito dell'infibulazione.... finché, come favola insegna, l'amicizia e la solidarietà avranno la meglio e salveranno la piccola musulmana dal suo destino, rendendo migliore la vita di tutti. Un libro da regalare ai figli, ai fratelli, ma anche una buona lettura per gli adulti perché Il gatto dagli occhi d'oro tocca il cuore e parla d'integrazione, d'amore e di solidarietà con una semplicità che incanta. Il che, di questi tempi, non è poco.

Lei è medico chirurgo, ha lavorato in Etiopia, e scrive libri per ragazzi. Perché?
"Perché la narrativa per ragazzi è appunto per ragazzi e i ragazzi sono straordinari. Gli adulti non sempre, non tutti, qualcuno si è un po' ammaccato lungo la via, ha perso lo smalto o si è dimenticato di averne. E' una narrativa epica, l'unica che vada per i massimi sistemi, l'unica che osi porsi interrogativi su Dio e sulla Morte, e osi addirittura dare risposte. È in realtà, sempre, narrativa "anche" per ragazzi, perché un libro che è buono a dodici anni è buono anche a sessanta, mentre non è sempre valido il contrario. Perché i libri per ragazzi devono avere imperativamente due caratteristiche, velocità del ritmo e fede nella vita, la coscienza che qualsiasi cosa succeda, la vita è sorprendente ed essere vivi e un dono. Non tutti possono fare lo scrittore di libri per ragazzi, come non tutti possono fare il giardiniere o il pasticciere. E poi ci sono un altro paio di pregi nell'essere un autore per persone molto giovani. Il libro che abbiamo letto a dieci anni, ci resta dentro, va a far parte delle fondamenta del sistema cognitivo e le fondamenta sono quello che resta sempre, lo ricordiamo tutta la vita e, infine, c'è un quantitativo di affetto e di tenerezza enormi che abbiamo solo noi. Io ho un armadio pieno di disegni con i personaggi dei miei libri che mi sono stati regalati, e qualcuno è arrivato dall'altra parte del mondo. Ogni tanto li tiro fuori e li guardo. Sono perfetti in quelle giornate un po' sospese, quando il raffreddore o il 38 di febbre mi rinchiudono a casa. Uno scrittore "per adulti " , o, meglio, solo per adulti, l'armadio di disegni, se lo sogna, e per il 38 di febbre ha solo l'aspirina".

Il Gatto dagli occhi d'oro racconta l'atrocità dell'infibulazione ...
"Come facciamo ad occuparci di altro fino a che l'infibulazione esiste? Il fantasma dell'infibulazione c'era già ne Gli Ultimi incantesimi, nascosto dentro l'incantesimo dell'idrargirio. Ho visto per la prima volta un'infibulazione all'ospedale di Bushulo, in Etiopia, un posto bellissimo sulle rive di un lago circondato da canneti. Le sale operatorie erano sale operatorie african style, vale a dire un unico stanzone con quattro lettini e grandi finestre chiuse da zanzariere. A causa della infibulazione rifatta dopo il parto, una giovane donna non riusciva più ad espellere il sangue mestruale. Era stato lasciato un orifizio, ma la suppurazione che era seguita aveva causato un edema, in altre parole un gonfiore ai tessuti, e l'edema aveva chiuso l'orifizio. Il sangue mestruale non potendo defluire era rimasto a stagnare trasformando la vagina in una sacca piena di sangue, che a causa della presenza di batteri era "marcito", la vagina era diventata una boccia che premendo sulla vescia le impediva di svuotarsi e la vescica era diventata enorme. Io dovevo svuotare la vagina, riaprendo per l'ennesima volta la vulva di quella povera donna. Era uscito il sangue, nerastro, infetto, con un odore nauseabondo e a quel punto gli avvoltoi attirati dall'odore di morte erano venuti a sbattere contro le zanzariere. La donna sarebbe morta da lì a poco per infezioni urinarie ricorrenti e insufficienza renale. Mentre cercavo di evacuare il più possibile di quella roba nerastra, mentre gli avvoltoi alle mie spalle si avventavano contro le zanzariere, pazzi per quell'odore di morto, di putrefatto, che invece veniva da ventre vivo di una donna, io ho giurato che avrei combattuto per le donne e le bambine. La mia battaglia comincia oggi, con questo libro, e non si fermerà fino a quando le mutilazioni sessuali esisteranno. È una battaglia per il sorriso: a ogni donna deve essere garantito il diritto inalienabile di sorridere".

Quale tipo di letteratura è utile per far conoscere ai ragazzi la parte oscura del mondo?
"La narrativa fantastica, sempre, da sempre, per sempre è quella che contiene i mostri. Quando qualcosa è troppo atroce per guardarlo in faccia, lo mettiamo nella narrativa fantastica. Una caratteristica della letteratura fantastica è contenere elementi fiabeschi, qualche scintilla di magia. In realtà la magia, non è infantile. La magia sostituisce in campo letterario un'altra parola che comincia per m, cioè miracolo, e altro non esprime che il nostro struggente desiderio di poter contare su una provvidenza che vegli su di noi, e che di tanto in tanto violi le leggi della natura per darci una mano. Questo ci permette di parlare di qualsiasi argomento, qualsiasi, con un tono di leggerezza, parola incantevole, che non ha niente a che vedere con superficialità. L'incantevole fiaba di Pelle d'Asino parla dell'incesto, Hansel e Gretel e Pollicino del cannibalismo: durante le grandi carestie, nella guerra dei trent'anni i Germania, in Ucraina nel 32 sotto Stalin, prima di morire di fame, la gente , mangiava i cadaveri. Il cannibalismo è un tabù assoluto, non è stato raccontato, è stato negato, ma è rimasto incastonato nelle fiabe. Le grandi fiabe classiche contengono la persecuzione del bambino, l'indicibile, ne Il Piccolo Principe e in Peter Pan, c'è l'insopportabile, la morte del bambino, la morte del figlio. Il Fantasy contiene una paura recenteissima, la paura della fine del mondo dovuta al formarsi di totalitarismi mai visti prima. Nella letteratura fantastica noi mettiamo i mostri che non osiamo guardare in faccia, perché una volta coperti di polverina d'oro e di colore, smettono di terrorizzarci e noi impariamo a fronteggiarli. È per questo che madre natura (Dio?) ha messo dentro ad un'area specifica del nostro cervello questa curiosa capacità, provare piacere, un piacere basato sulle endorfine, nell'ascoltare una storia che non è mai successa. Noi dobbiamo credere nella fiabe, perché dicono la verità: dicono che gli orchi esistono e che possono essere battuti. Dicono che gli orchi esistono e possono essere salvati".

Silvana De Mari
Il gatto dagli occhi d'oro
Fanucci editore

© Riproduzione riservata: La Repubblica
(30 ottobre 2009)

Ricatto non fu

L'INCHIESTA.

Nella Procura di Roma si valuterà pure la ricettazione
L'irruzione avviene il 3 luglio, e già l'11 il filamto viene messo in vendita
Per troppo tempo quel video di Marrazzo
custodito nelle stanze di Berlusconi

di GIUSEPPE D'AVANZO


Ricatto a Marrazzo. La fonte vicina all'inchiesta non ci gira intorno: "Non c'è alcun altro politico di destra o di sinistra, ministro in carica, ministro uscente, professionista celebre o ignoto, "Chiappe d'oro" o d'argento nella nostra indagine". Forse salteranno fuori domani o forse mai. Per intanto, si deve dire che il vivamaria di indiscrezioni e nomi sussurrati che avvelenano o eccitano il Palazzo appare soltanto un efficace lavoro per confondere l'affaire. Che ha due capitoli. Il primo è noto. All'unisono tutti - una volta tanto - chiedono che sia chiuso con le dimissioni di Marrazzo. Riguarda le debolezze private del governatore, la leggerezza di un uomo pubblico che, ricattato, non denuncia il ricatto e, scoperto il ricatto, mente o dissimula nella scriteriata speranza di salvare il collo e la reputazione. Ma fu vero ricatto o Marrazzo può avere qualche ragione se ha creduto, per quasi quattro mesi, di essere stato vittima di una rapina e non di un'estorsione?

Bisogna allora leggere il secondo capitolo della storia dove la trama degli eventi è sconnessa, la successione contraddittoria, le volontà e le azioni senza senso. Tre carabinieri, tre tipi sinistri, con la complicità di un pusher tossicomane (Gianguarino Cafasso), penetrano con la forza in un appartamento dove il governatore è in compagnia di un viado. Lo sbattono contro un muro. Lo obbligano a sfilarsi i pantaloni (è l'ultima versione di Marrazzo). Sistemano un palcoscenico con trans scollacciato, denaro, cocaina, tessera dell'"Associazione nazionale esercenti cinema" con foto. Riprendono la scena con un cellulare. Gli svuotano il portafoglio (2.000 euro). Lo obbligano a firmare tre assegni per 20 mila euro (che non incassano). Se ne vanno. È il 3 luglio, venerdì. Già qualche giorno dopo, l'11 luglio, il pusher tossicomane contatta, attraverso il suo avvocato, la redazione di Libero (diretto da Vittorio Feltri). È bizzarro un ricatto con i ricattatori che non provano nemmeno a spillare denaro alla vittima, ma si preoccupano subito di rendere inutilizzabile l'arma minacciosa che si sono procurati. Perché? La ragione ce l'abbiamo sotto gli occhi: Piero Marrazzo non è stato mai ricattato dai carabinieri. Quelle canaglie non ci hanno mai pensato. Avrebbero dovuto comportarsi in un altro modo. Hanno il governatore nelle loro mani, troppo terrorizzato per denunciarli. Possono mettersi comodi e spremerlo per bene, e a lungo, ottenendo denaro e favori. Con tutta evidenza, non è questa la loro missione. Non chiedono niente, non vogliono niente, non si fanno mai vivi per batter cassa. Il lavoro sporco che devono sbrigare è un altro: incastrare il governatore e "sputtanarlo". Ecco perché cercano di vendere subito il video. L'iniziativa, a tutta prima, appare stupida, incomprensibile, se parliamo di estorsione. Si rivolgono all'agenzia PhotoMasi di Milano. Non ha torto Carmen Masi a chiedersi oggi: "Quale ricattatore cerca di rendere pubblico l'oggetto del ricatto? È assurdo". Infatti, lo è. Hai un bottino che può durare nel tempo e lo trasformi in un piatto di lenticchie mangiato una volta e per sempre?
Chi sono allora questi furfanti vestiti da carabinieri? Bisogna chiederlo alla fonte vicina all'inchiesta. Quello si gratta la testa e dice: "Ce ne occuperemo a tempo debito. Ora si possono fare solo tre ipotesi. 1. Sono tre pezzenti. 2. Sono "comandati". 3. Sono eterodiretti". La prima ipotesi è la più improbabile". Per dare un senso a una storia che non sta in piedi, si deve accantonare il ricatto che non c'è, che non c'è mai stato, ed esplorare la strada che imbocca il video. Chi lo vede? Chi lo possiede?

È, dunque, l'11 luglio. Un avvocato, per conto del pusher tossicomane, contatta la redazione di Libero. Due giornaliste, tre giorni dopo (il 15), incontrano Gianguarino Cafasso che mostra loro, in una stamberga della Cassia, il filmato con Marrazzo. È Cafasso a parlare di "politici e trans, di cui sa tutto" e di quello chiamato "Chiappe d'oro". Vuole 500mila euro (che nel tempo si riducono a 90 mila) per le immagini del governatore: "così chiudo con questa vita". Le giornaliste non sono convinte. I tre minuti del video sembrano taroccati. Chiedono di rivederlo. Niente da fare. Un paio di giorni per decidere o non se ne fa niente, dice Cafasso. Le giornaliste informano Vittorio Feltri che decide di lasciar perdere. Il video si muove ancora. Prima di ferragosto viene proposto ad Oggi (gruppo Rizzoli). Un inviato del settimanale lo visiona il 1 settembre a Roma. Gli appare taroccato. Vuole verificarne l'attendibilità. Gli viene impedito. La direzione di Oggi (Andrea Monti. Umberto Brindani), qualche giorno dopo, chiude la trattativa con la PhotoMasi, incaricata di commercializzare il video da un quarto carabiniere della banda. Il dischetto continua a girare per vie misteriose che vanno oltre i contatti dell'agenzia milanese. Non è più Cafasso a muoverlo. Stroncato dai suoi vizi e dal diabete, è morto in una stanza d'albergo. In settembre sente parlare del video Maurizio Belpietro, diventato direttore di Libero. Riesce a farselo mostrare, anche se non ne entra in possesso, il 12 ottobre. Anche lui s'impiomba dinanzi a quelle immagini troppo confuse che ipotizza false, ma ormai negli ambienti del governo e del centro-destra molti sanno che quel video esiste e che, prima o poi, si troverà il modo per mostrarlo a tutti. C'è chi storce la bocca per il disgusto e lascia filtrare da fine settembre la notizia del "filmatino", rifiutato da Feltri e Belpietro. Sono i primi giorni di ottobre, ormai, e il lavoro sporco dei carabinieri, forse "comandati", forse eterodiretti, mostra la corda. Nessuno vuole il video nelle testate che avrebbero avuto l'interesse politico - Cafasso è esplicito con le croniste di Libero - a pubblicarlo. Feltri l'ha rifiutato. Belpietro non l'ha voluto. A Mario Giordano, direttore del Giornale fino a luglio, non è stato nemmeno proposto.

Bisogna ricominciare daccapo, cambiando qualcosa nella procedura. Quando Carmen Masi contatta Alfonso Signorini, direttore di Chi (Mondadori), ottiene materialmente il video (l'agenzia non l'ha mai posseduto) e viene autorizzata finalmente dai quattro furfanti a lasciarlo in visione al possibile acquirente. È il cinque ottobre, Signorini riceve il dischetto, firma una ricevuta. Copia le immagini. Ora è decisivo sapere che cosa accade tra la Mondadori, Palazzo Grazioli, Villa San Martino, tra il 5 e il 19 ottobre, quando Berlusconi chiama Marrazzo per dirgli che c'è un video compromettente e che farebbe meglio a ricomprarselo dall'agenzia mentre gli detta il numero di telefono di Carmen Masi e di un possibile mediatore. Nella nebbia, c'è qualche punto fermo. Signorini decide di non pubblicare. È certo che non restituisce il dischetto. È certo che informa il presidente della Mondadori (Marina Berlusconi) e l'amministratore delegato (Maurizio Costa). È certo che Silvio Berlusconi ha modo di vedere il video che Signorini ha consegnato a Marina. I tempi diventano determinanti. Quando il direttore di Chi consegna le immagini a Marina? Quando Marina le mostra al padre? Quanto tempo Silvio Berlusconi si rigira tra le mani il dischetto prima di telefonare a Marrazzo?

I tempi sono determinanti perché, in quelle ore, il diavolo ci metta la coda. Le cose vanno così. Un pubblico ministero di una procura italiana sta dietro a una banda di trafficanti di droga che sta combinando "un affare molto, molto grosso". Telefoni sotto controllo. "Cimici" ambientali. Pedinamenti. Insomma, l'ambaradam di questi casi. Nella "rete" resta impigliato uno dei carabinieri canaglia che ha aggredito Marrazzo. L'"ascolto" si allarga ai suoi telefoni. Quello parla con uno della combriccola in divisa e si sente dire: "... il video del presidente...".
Il video del presidente. Il pubblico ministero a chi può pensare? Non è romano, non è laziale. L'ultima persona che gli può venire in mente è Marrazzo. Pensa a quel presidente, a Berlusconi. Si dispera. È di fronte a un'alternativa del diavolo. Sa di dover intervenire subito per proteggere il capo del governo da chissà che cosa ed è consapevole che, se lo fa, gli va per aria l'inchiesta. Decide di liberarsi della patata bollente. Intorno al 9 ottobre chiama il procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Cataldo, e gli spiega l'impiccio: occupatevene voi, vi mando le carte, voi mettete le mani sul video, ammesso che esista, io salvo la mia inchiesta, voi salvate Berlusconi. Così sarà. Il 14 ottobre un'informativa del Ros mette in moto la procura di Roma.

A questo punto, si deve immaginare Berlusconi. Da un lato, come presidente del consiglio, il 19 viene informato che magistrati e carabinieri sono sulle tracce di "un video del presidente" che potrebbe coinvolgerlo. Dall'altro, come proprietario della Mondadori, quel mattino ha sul tavolo il video che magistrati e carabinieri stanno cercando. Non devono essere state ore serene. Se non si muove, se non fa qualcosa, chi toglie dalla testa dell'opinione pubblica che il presidente del consiglio - protetto da uno straordinario conflitto di interessi - governi una "macchina del fango", nel tempo sbattuta contro la reputazione di Dino Boffo (direttore dell'Avvenire), Gianfranco Fini (presidente della Camera), Raimondo Mesiano (giudice responsabile di avergli dato torto in una causa civile)? Chi azzittirà le grida della "solita sinistra" e dei "comunisti" persi dietro al cattivo pensiero che quel video - né pubblicato né restituito né consegnato alla magistratura - sia custodito in attesa di tempi migliori, magari elettorali? Berlusconi decide d'impulso, come sempre. Vuole uscire dall'angolo, ribaltare la scena. Chiama il governatore: "Non mi potranno dire che non sono stato un gentiluomo". Gli dice di muoversi. Spera che Marrazzo faccia in fretta. Compri il video, lo distrugga cancellando un lavoro malfatto che può essere molto pericoloso. Come si sa, il governatore si muove lento, i carabinieri veloci. Quel che rimane è storia di questi giorni e annuncia un terzo capitolo ancora non scritto.

Ora le rogne sono tutte della procura di Roma perché quel che è avvenuto è chiaro alla luce del codice penale. Articolo 640, ricettazione. "Chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve o occulta cose provenienti da un qualsiasi delitto o comunque s'intromette nel farli acquistare, ricevere od occultare, è punito con la reclusione da due a otto anni". È indubbio che Signorini, Marina Berlusconi e Maurizio Costa, per procurarsi un profitto, hanno ricevuto quel video palesemente ottenuto con un delitto (con la violenza e la violazione del domicilio). È indubbio che Silvio Berlusconi si sia intromesso per far acquistare, prima, e occultare, poi, quella "cosa proveniente da un delitto". Se la legge è uguale per tutti, è ragionevole pensare che la procura di Roma cercherà di capire chi ha "pilotato" i falsi ricattatori mentre invierà a Milano, per competenza, le carte di una ipotetica ricettazione.

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(30 ottobre 2009)

28 ottobre 2009

Il cuore batte a sinistra

In un momento storico/politico/sociale come l'attuale, le mie parole si lascerebbero trascinare dall'emotività.
Leggo articoli di giornalisti che riescono a esprimere al meglio ciò penso e sento. Quindi copio e incollo, senza alcuna creatività.
Solo un album in cui riporto ciò che stimo. E lo riporto perchè per me "quell'articolo" è importante.
Come questa analisi di Mario Pirani su Repubblica.

Il potere, il sesso e le menzogne
perché s'indigna il popolo di sinistra

L'ANALISI di MARIO PIRANI


Le dimissioni di Piero Marrazzo hanno un valore, prima che politico, purificatorio. Non sono la risposta alle richieste interessate della maggioranza di governo ma allo sconforto del popolo di sinistra.

Con questo gesto l'uomo politico si è spogliato della sua veste pubblica e da questo punto di vista la vicenda è chiusa. Resta un dramma privato, aperto all'umana pietas di chi ha sofferto per Marrazzo o anche si è scandalizzato per le debolezze di un individuo.

Alcune riflessioni, però, si impongono. Nel giorno delle primarie il popolo di sinistra era andato a votare con l'animo percosso da una catastrofe dell'anima, scatenata appunto dal caso Marrazzo. Lo choc non può essere neppure oggi superato confortandosi con il parallelo, che viene spontaneo a tutti, tra come si è conclusa la vicenda che ha travolto il presidente della Regione Lazio e i fatti, ben più gravi per la commistione tra pubblico e privato, che "non" hanno provocato le dimissioni del premier. Non avrebbe, peraltro, alcun costrutto abbandonarsi ad una valutazione ponderata del grado di accettabilità delle propensioni sessuali dell'uno e dell'altro personaggio. Serve, piuttosto, porsi altri problemi e, in primo luogo, interrogarsi sul perché le reazioni dei due elettorati siano state e siano così divergenti, quasi da delineare una cortina di ferro antropologica tra "popolo di destra" e "popolo di sinistra".

Il primo, quello berlusconiano, tranne qualche frangia cattolica osservante e la ristretta élite finiana, in fondo non solo accetta ma si compiace di ciò che Giuliano Ferrara derubrica a "inviti a cena e in villa e sesso un po' a casaccio, con una instancabilità privata divenuta favola pubblica". Bastava, del resto, fare attenzione a cosa diceva in questi mesi e dice ancor oggi la "gente", per cogliere l'assonanza tra le brave madri di famiglia che ce l'hanno con Veronica perché "non lava in famiglia i panni sporchi" e i "machi" di borgata o dei Parioli, fieri delle scopate del loro leader, quasi potessero anche loro replicarle per interposta persona. Il tutto condito dallo schifiltoso ritrarsi dal giudizio dei tanti pseudo liberali, dimentichi della differenza tra ruolo pubblico e vita privata e adontati con "Repubblica" perché ha raccontato tutte queste sconcezze, senza rispettare il sacrosanto diritto alla privacy. Per altri ancora è bastato voltarsi dall'altra parte, distogliere l'attenzione, dirsi che gli uni e gli altri si equivalgono, non farsi coinvolgere dalla evidenza di un'etica pubblica, gettata alle ortiche. Infine, alle brutte, se qualche ambascia li coglieva, prendersela con la sinistra che non c'è.

Per contro il "popolo di sinistra" nel suo assieme e i singoli individui, uomini e donne, che ne fanno parte hanno sofferto amarezza profonda, se non disperazione. Quasi ognuno di loro si ritenesse personalmente offeso da un gesto giudicato insopportabile. Né vale dirsi e ripetersi che Piero Marrazzo ha fatto del male in primo luogo a se stesso e alla sua famiglia e ha cercato di coltivare le sue propensioni sessuali in segreto, senza coinvolgere l'istituzione che dirigeva con accertata dedizione. No, queste cose non potevano lenire un lutto morale che solo le dimissioni permettono ora di elaborare. È, infatti, il nucleo più profondo dell'animo collettivo e individuale della sinistra che è stato leso. Dalla caduta del Muro ad oggi quell'animo è stato sottoposto a una cura terapeutica che, se lo ha disintossicato dall'ideologia e dalla sua proiezione pratica più deleteria - lo stalinismo in tutte le sue forme - , lo ha anche spogliato da illusioni, utopie, speranze troppo avanzate di riscatto economico. La globalizzazione ha smantellato le sue strutture sociali di difesa, i suoi partiti si son fatti sempre più fragili, ognor mutevoli, anche di nome. In questa deriva una sola certezza è rimasta come valore di auto identificazione: l'essere dalla parte - ed essere parte - della gente onesta, per bene; di quelli che non hanno nulla da nascondere, che rispettano la legge, contano sulla Costituzione, pagano le tasse, magari perché ritenute con la paga, conservano qualche traccia di solidarietà.

Per questo aborrono Berlusconi che, per contro, ha legittimato i vizi storici degli italiani, gli altri italiani, che son forse la maggioranza. Che con la scesa in campo del Cavaliere hanno finalmente trovato qualcuno che non li faceva vergognare della vocazione nazionale ad "arrangiarsi", magari con qualche imbroglio piccolo o grande, eludendo il fisco, lavorando in nero, armeggiando per una violazione edilizia. E soprattutto vivendo la legge, le regole e sotto sotto anche qualcuno dei 10 Comandamenti, figuriamoci la Costituzione, come malevoli impedimenti al libero esplicitarsi di tutto ciò che bisogna fare per sopravvivere. Per questo amano e si identificano con Berlusconi che ha suonato la campana del "liberi tutti" (l'altro giorno, persino, dall'obbligo di pagare il canone Rai). Cosa gliene importa del conflitto d'interessi, della suddivisione dei poteri, del ludibrio gettato sulla Magistratura? Anzi, la condotta scandalosa, pubblicamente esibita, la degradazione dei palazzi del potere in luoghi di privato piacere, la promozione delle veline di turno, danno a tanti diseredati, ai rampanti in lista di attesa, agli infiniti aspiranti alle innumerevoli "isole dei famosi", il placet "che tutto se po' fa", la versione plebea dello "Yes, we can".

Il "popolo di sinistra" questo lo sente e lo soffre. Lo consola il fatto di poter raccontare se stesso in modo specularmente opposto, anche se non riesce più ad inverarsi nella orgogliosa "diversità" berlingueriana. Immagina che il suo partito di riferimento faccia proprio questo valore, smentisca nei fatti quel ritornello che lo offende ma anche genera dubbi: "In fondo sono tutti eguali". Per questo il "peccato" di Piero Marrazzo è stato patito come "mortale". Perché avvalora il dubbio, soprattutto nei confronti di vertici, dotati solo di buona volontà ma non del carisma da cui nasce la fiducia.

Di qui l'esigenza di una franca, profonda riflessione in seno a quello che formalmente si chiama gruppo dirigente. Perché maturi la consapevolezza che il germe velenoso dell'omologazione subliminale con l'avversario può proliferare grazie a comportamenti similari: designando candidati dotati solo di immagine, siano annunciatori televisivi o giovani il cui curriculum si esaurisce nel certificato di nascita, senza più alcuna verifica delle competenze e della coerenza morale tra pensiero e azione; manifestando in mille occasioni un'arroganza del potere e una sicumera che nulla hanno da invidiare ai loro colleghi dell'altra sponda politica; abbandonando, come finora hanno fatto non il "controllo del territorio", secondo la formuletta che amano ripetere, ma il contatto continuo, fraterno, comprensivo col loro elettorato.

Da questo elettorato è venuta una volta di più, con i tre milioni di voti delle primarie, la prova niente affatto scontata che il popolo di sinistra ancora c'è, "ci crede" e ha conservato nel cuore un credito di fiducia, una qualche speranza. Esso seguita ad esprimere una "etica popolare" che si contrappone al cinismo amorale berlusconiano. Non è detto che la dirigenza di centro-sinistra sia capace di leggere in profondità le esigenze di buon governo, sia del partito che del Paese che da questo popolo provengono ancora.

Una prima prova la si avrà con la scelta del candidato destinato a concorrere al posto di Marrazzo, quando si svolgeranno le elezioni regionali. Guai se comincerà la solita diatriba tra le mezze cartucce vogliose di fare carriera, più che di vincere. Per questo mi permetto di concludere con una proposta personale. Nelle ultime settimane un personaggio è emerso o, meglio, si è innalzato al di sopra della media, per aver saputo rintuzzare davanti a milioni di telespettatori, le volgarità insultanti del presidente del Consiglio, tanto da diventare simbolo di una riscossa femminile, Rosy Bindi. Sarebbe il caso di sceglierla per acclamazione.

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(28 ottobre 2009)

27 ottobre 2009

"Denunciare il ricatto all'autorità giudiziaria? Nemmeno per sogno!"

CRONACA

La macchina del fango
IL COMMENTO di GIUSEPPE D'AVANZO


Berlusconi si cucina da solo i suoi guai. Distrugge, di giorno, i muri che i suoi consiglieri fabbricano, di notte, per difenderlo. Quelli si erano appena rimboccati le maniche, con buona volontà, per riproporre - complici, le debolezze di Piero Marrazzo - la separatezza e l'inviolabilità della sfera privata dalla funzione pubblica (ancora!).

Salta fuori che l'Egoarca ha avvertito per tempo il governatore: "C'è in giro un video contro di te". Frammento superbo della nostra vita pubblica. Merita di essere analizzato, e con cura. Viene comodo farlo in quattro quadri.

Nel primo quadro, bisogna riscrivere con parole più adatte quel che sappiamo. Non il signor Silvio Berlusconi, ma il presidente del consiglio - proprietario del maggior gruppo editoriale del Paese - allerta il governatore "di sinistra" che il direttore di una sua gazzetta di pettegolezzi (Chi) ha in mano un video che lo compromette. Glielo ha detto la figlia (Marina, presidente di Mondadori). A questo punto, il capo del governo potrebbe consigliare all'altro uomo di governo di non perdere un minuto e di denunciare il ricatto all'autorità giudiziaria. Nemmeno per sogno. Il presidente del Consiglio indica all'altro attraverso chi passa il ricatto, ne fornisce indirizzo e numero di telefono: che il governatore si aggiusti le cose da solo mettendo mano al portafoglio e "ritirando la merce dal mercato", come pare si dica in questi casi. È la pratica di uomini che governano senza credere né alla legge né allo Stato, né in se stessi né nella loro responsabilità. In una democrazia rispettabile, l'argomento potrebbe essere definitivo. Nell'"Italia gobba", la legalità è opzione, mai dovere, e quindi l'argomento diventa trascurabile. Trascuriamolo (per un attimo solo) e immaginiamo che Marrazzo riesca nell'impresa di ricomprarsi quel video.

È il secondo quadro. Vediamo che cosa accade a questo punto. Piero Marrazzo annuncia la sua seconda candidatura al governatorato. Si vota in marzo. Il candidato "di sinistra" è consapevole che il suo destino politico e personale è nelle mani del leader della coalizione "di destra". In qualsiasi momento, quello può tirare la corda e rompergli il collo. A quel punto, a chi appartiene la vita di Piero Marrazzo? A se stesso, alle sue decisioni politiche, ai suoi comportamenti privati o alla volontà e alle strategie dell'antagonista? È una condizione di vulnerabilità politica che dovrebbe consigliargli la piena trasparenza a meno di non voler diventare un burattino. Al contrario, Marrazzo tace e tira avanti. Scoppia lo scandalo e mente ("È una bufala", "Non c'è alcun video"). Lo scandalo diventa insostenibile e ancora rifiuta la responsabilità della verità: non dice dell'avvertimento di Berlusconi; non dice come si procura il denaro che gli occorre per le sue scapestrate avventure. (Sono buone ragioni per chiedergli di nuovo le dimissioni perché non è sufficiente l'ipocrita impostura dell'autosospensione). Quel che accade al governatore ci mostra in piena luce come funziona "una macchina".

È il terzo quadro. Al centro della scena, i direttori delle testate di proprietà del presidente del Consiglio (o da lui influenzate). In questo caso, Alfonso Signorini, direttore di Chi, già convocato d'urgenza da una vacanza alle Maldive per confondere, con una manipolazione sublunare della realtà, il legame del premier con una minorenne.

Signorini spiega come vanno le cose in casa dell'Egoarca, premier e tycoon. Direttamente con le redazioni o, indirettamente, da strutture esterne o da chi vuole qualche euro facile - i direttori raccolgono fango adatto a un rito di degradazione. Una volta messa al sicuro la poltiglia del disonore (autentica o farlocca, a costoro non importa), il direttore avverte i vertici del gruppo, l'amministratore delegato e il presidente. Che si incaricano di informare l'Egoarca. A questo punto, il premier è padrone del gioco. Pollice giù, e scatta l'aggressione. Pollice su, e il malvisto finisce in uno stato di minorità civile. Accade al giudice Mesiano, spiato dalle telecamere di Canale5.

Berlusconi addirittura annuncia l'imboscata: "Presto, ne vedremo delle belle". Accade al direttore dell'Avvenire, Dino Boffo, colpevole di aver dato voce all'imbarazzo delle parrocchie per la vita disonorevole del premier. Accade al presidente della Camera, Gianfranco Fini, responsabile di un cauto e motivato dissenso politico. Accade a Veronica Lario, moglie ribelle. A ben vedere, accade oggi al ministro dell'Economia che può intuire sul giornale del premier qualche avvertimento. Suona così: "Tremonti in bilico"; "Se Tremonti va, Draghi arriva". C'è da chiedersi: quanti attori del discorso pubblico sono oggi nella condizione di sottomissione che anche Marrazzo era disposto ad accettare?

Quarto e ultimo quadro, allora. Non viviamo nel migliore dei mondi. La personalizzazione della politica ha cambiato ovunque le regole del gioco e il fattore decisivo di ogni competizione è la proiezione negativa o positiva dell'uomo politico - e della sua affidabilità - nella mente degli elettori. È la ragione che fa del "killeraggio politico - scrive Manuel Castells (Comunicazione e potere) - l'arma più potente nella politica mediatica". I metodi sono noti. Si mette in dubbio l'integrità dell'avversario, nella vita pubblica e in quella privata. Ricordate che cosa accade a McCain e Kerry? Si ricordano agli elettori, "in modo esplicito o subliminale", gli stereotipi negativi associati alla personalità del politico, per esempio essere nero e musulmano in America. È la lezione che affronta Barack Obama. Si distorcono le dichiarazioni o le posizioni politiche. Si denunciano corruzione, illegalità o condotta immorale nei partiti che sostengono il politico. Naturalmente, le informazioni distruttive si possono raccogliere, se ci sono; distorcerle, se appaiono dubbie o controverse; fabbricarle, se non ci sono. È uno sporco lavoro, che ha creato negli Stati Uniti, dei professionisti. Uno di loro, Stephen Marks, consulente dei repubblicani, ha raccontato in un libro (Confessions of a Political Hitman, Confessioni di un killer politico) il suo modus operandi. È interessante riassumerlo: "Passo I, il killer politico raccoglie il fango. Passo II, il fango viene messo in mano ai sondaggisti che determinano quale parte del fango arreca maggior danno politico. Passo III, i sondaggisti passano i risultati a quelli che si occupano di pubblicità, che passano i due o tre elementi più dannosi su Tv, radio e giornali con l'intento di fare a pezzi l'avversario politico. Il terzo passo è il più notevole. Mi lascia a bocca aperta l'incredibile talento degli addetti ai media... quando tutto è finito, l'avversario ha subito un serio colpo, da cui non riesce più a riprendersi". Qui, quel che conta è la segmentazione del lavoro e soprattutto "l'incredibile talento degli addetti ai media" perché devono essere i più abili e i più convincenti. I media, negli Stati Uniti, non sono a disposizione della politica e per muoverli occorre "provocare fughe di notizie rimanendo al di fuori della mischia", offrire "merce" che regga a una verifica, a un controllo, che sia significativa e in apparenza corretta anche quando è manipolata.

In Italia, non esiste questo scarto. Non c'è questa fatica da fare perché non c'è alcuna segmentazione della politica mediatica. Uno stesso soggetto ordina la raccolta del fango, quando non lo costruisce. Dispone, per la bisogna, di risorse finanziarie illimitate; di direzioni e redazioni; di collaboratori e strutture private; di funzionari disinvolti nelle burocrazie della sicurezza, magari di "paesi amici e non alleati". Non ha bisogno di convincere nessuno a pubblicare quella robaccia. Se la pubblica da sé, sui suoi media, e ne dispone la priorità su quelli che influenza per posizione politica. È questa la "meccanica" che abbiano sotto gli occhi e bisogna scorgere - della "macchina" - la spaventosa pericolosità e l'assoluta anomalia che va oltre lo stupefacente e noto conflitto d'interessi. Quel che ci viene svelato in queste ore è un sistema di dominio, una tecnica di intimidazione che mette freddo alle ossa, che minaccia l'indipendenza delle persone, l'autonomia del loro pensiero e delle loro parole. I più onesti, dovunque siano, dovrebbero riconoscerlo: non parliamo più di trasparenza della responsabilità pubblica, di vulnerabilità, di pubblico/privato. Più semplicemente, discutiamo oggi della libertà di chi dissente o di chi si oppone. O di chi potrebbe sentirsi intimidito a dissentire o a opporsi all'Egoarca.

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(27 ottobre 2009)

26 ottobre 2009

...una via d'uscita dal vicolo cieco italiano?

POLITICA

Una bella giornata per la democrazia
IL COMMENTO di CURZIO MALTESE


Tre milioni di votanti, cinquantamila volontari in diecimila seggi, decine di milioni di euro raccolti. Se qualcuno nel Pd ha ancora dubbi sulle primarie è un pazzo. Sono l'elemento più identitario del partito, dal giorno della nascita.

È stata una grande giornata per l'unico partito al mondo che coinvolga tanti cittadini nella scelta del segretario, ma soprattutto per la democrazia. Il voto degli elettori ha confermato nella sostanza quello degli iscritti. Bersani è il vincitore, ma Franceschini e Marino non escono sconfitti. Il segretario uscente ha avuto proprio ieri la conferma d'aver svolto bene la missione di salvare il Pd nella stagione peggiore e oggi può consegnarlo al successo in ottima salute. Ignazio Marino è stata la sorpresa del voto popolare, a riprova che i temi del rinnovamento e della laicità sono assai avvertiti dalla base.

La vera notizia è la partecipazione. Tre milioni non li aveva previsti nessuno. Tanto meno dopo l'ultimo desolante caso di Piero Marrazzo. Il popolo democratico ha invece reagito con un atto di generosità e responsabilità, qualità più rare ai vertici. La corsa alle primarie può segnare un punto di svolta nello stallo politico. È una scossa positiva per il Pd, in cerca d'identità da troppo tempo. Ed è una spallata al governo Berlusconi, già avvitato in un evidente declino. Una spallata vera e potente, che non arriva dalle élites e dai palazzi complottardi di cui favoleggiano i demagoghi, ma piuttosto da milioni d'italiani. Cittadini normali che si sono svegliati presto di domenica, messi in fila, versato un contributo, atteso i risultati fino a notte. Non perché Bersani, Franceschini o Marino siano leader di travolgente carisma, né sull'onda di un entusiasmante dibattito congressuale. Ma nella speranza d'infondere al principale partito d'opposizione la forza necessaria per mandare a casa il peggior governo della storia repubblicana.

Questo è il chiarissimo mandato che i tre milioni consegnano nelle mani del vincitore Bersani, ma anche a Franceschini e Marino, da oggi chiamati a collaborare come rappresentanti delle minoranze interne a un grande progetto. Si tratta di vedere se la nuova dirigenza saprà interpretarlo o, chiusi i gazebo, tornerà a rinchiudersi nelle stanze affumicate di strategie tanto sottili quanto perdenti. Come è sempre accaduto finora. Il nuovo leader democratico ha davanti compiti difficili e tempi strettissimi, da qui alle regionali. Il primo è rilanciare il Pd alla guida di un'opposizione seria nei toni, ma dura nella sostanza. Più dura di quanto non sia stata finora. Di "tregue" a Berlusconi, più o meno volontarie, il centrosinistra ne ha offerte già troppe in questi anni. Un'ulteriore resa a un Cavaliere a fine corsa, almeno nell'opinione mondiale, sarebbe interpretata come un tradimento degli elettori e si tradurrebbe in una catastrofe politica.

Il secondo compito è quello di affrontare il rinnovamento interno al partito, che non sia la solita mano di bianco sulla nomenklatura. Nei confronti dei casi inquietanti segnalati qua e là, la base si aspetta da Bersani che agisca con rapidità e chiarezza. Per fare l'esempio più recente, che convinca Marrazzo, dopo l'opportuno gesto dell'autosospensione, a tagliare la testa al toro e rassegnare subito le dimissioni da governatore.

Occorre certo un po' di coraggio, quello che è sempre mancato ai leader, davvero non al popolo di centrosinistra. Ma il coraggio, se uno non l'ha, milioni di voti glielo potrebbero pur dare. A Prodi e a Veltroni non erano bastati. Bersani ne ha presi molti meno, ma alla fine di primarie vere e combattute fino all'ultimo. Ora ha l'occasione di dimostrare nei fatti quanto aveva ragione a criticare i predecessori.

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(26 ottobre 2009)

16 ottobre 2009

Il Coraggio di parlare, il coraggio di lottare fino in fondo

IL RACCONTO

Io, la mia scorta e il senso di solitudine

di ROBERTO SAVIANO

"LO VEDI, stanno iniziando ad abbandonarci. Lo sapevo". Così il mio caposcorta mi ha salutato ieri mattina. Il dolore per la protezione che cercano di farmi pesare, di farci pesare, era inevitabile. La sensazione di solitudine dei sette uomini che da tre anni mi proteggono mi ha commosso. Dopo le dichiarazioni del capo della mobile di Napoli che gettano discredito sul loro sacrificio, che mettono in dubbio le indagini della Dda di Napoli e dei Carabinieri, la sensazione che nella lotta ai clan si sia prodotta una frattura è forte.

Non credo sia salutare spaccare in due o in più parti un fronte che dovrebbe mostrarsi, e soprattutto sentirsi, coeso. Società civile, forze dell'ordine, magistratura. Ognuno con i suoi ruoli e compiti. Ma uniti. Purtroppo riscontro che non è così. So bene che non è lo Stato nel suo complesso, né le figure istituzionali che stanno al suo vertice a voler far mancare tale impegno unitario. Sono grato a chi mi ha difeso in questi anni: all'arma dei Carabinieri che in questi giorni ha mantenuto il silenzio per rispetto istituzionale ma mi ha fatto sentire un calore enorme dicendomi "noi ci saremo sempre".

Mi ha difeso l'Antimafia napoletana attraverso le dichiarazioni dei pm Federico Cafiero De Raho, Franco Roberti, Raffaele Cantone. Mi ha difeso il capo della Polizia Antonio Manganelli con le sue rassicurazioni e la netta smentita di ciò che era stato detto da un funzionario. Mi ha difeso il mio giornale. Mi hanno difeso i miei lettori.

Ma uno sgretolamento di questa compattezza è malgrado tutto avvenuto e un grande quotidiano se ne è fatto portavoce. Ciò che dico e scrivo è il risultato spesso di diversi soggetti, di cui le mie parole si fanno portavoce. Ma si cerca di rompere questa nostra alleanza, insinuando "tanti lavorano nell'ombra senza riconoscimento mentre tu invece...". Chi fa questo discorso ha un unico scopo, cercare di isolare, di interrompere il rapporto che ha permesso in questi anni di portare alla ribalta nazionale e internazionale molte inchieste e realtà costrette solo alla cronaca locale.

Sento di essere antipatico ad una parte di Napoli e ad una parte del Paese, per ciò che dico per come lo dico per lo spazio mediatico che cerco di ottenere. Sono fiero di essere antipatico a questa parte di campani, a questa parte di italiani e a molta parte dei loro politici di riferimento. Sono fiero di star antipatico a chi in questi giorni ha chiamato le radio, ha scritto sui social forum "finalmente qualcuno che sputa su questo buffone". Sono fiero di star antipatico a queste persone, sono fiero di sentire in loro bruciare lo stomaco quando mi vedono e ascoltano, quando si sentono messi in ombra. Non cercherò mai i loro favori, né la loro approvazione. Sono sempre stato fiero di essere antipatico a chi dice che la lotta alla criminalità è una storia che riguarda solo pochi gendarmi e qualche giudice, spesso lasciandoli soli.

Sono sempre stato fiero di essere antipatico a quella Napoli che si nasconde dietro i musei, i quadri, la musica in piazza, per far precipitare il decantato rinascimento napoletano in un medioevo napoletano saturo di monnezza e in mano alle imprenditorie criminali più spietate. Sono sempre stato antipatico a quella parte di Napoli che vota politici corrotti fingendo di credere che siano innocui simpaticoni che parlano in dialetto. Sono sempre stato fiero di risultare antipatico a chi dice: "Si uccidono tra di loro", perché contiamo troppe vittime innocenti per poter continuare a ripetere questa vuota cantilena.

Perché così permettiamo all'Italia e al resto del mondo di chiamarci razzisti e vigliacchi se non prestiamo soccorso a chi tragicamente intercetta proiettili non destinati a lui. Come è accaduto a Petru Birladeanu, il musicista ucciso il 26 maggio scorso nella stazione della metropolitana di Montesanto che non è stato soccorso non per vigliaccheria, ma per paura.
Sono sempre stato fiero di risultare antipatico a chi mal sopporta che vada in televisione o sulle copertine dei giornali, perché ho l'ambizione di credere che le mie parole possano cambiare le cose se arrivano a molti.

E serve l'attenzione per aggregare persone. Sarò sempre fiero di avere questo genere di avversari. I più disparati, uniti però dal desiderio che nulla cambi, che chi alza la testa e la voce resti isolato e venga spazzato via com'è successo già troppe volte. Che chi "opera" sulle vicende legate alla criminalità organizzata e all'illegalità in generale, continui a farlo, ma in silenzio, concedendo giusto quell'attenzione momentanea che sappia sempre un po' di folklore. E se percorriamo a ritroso gli ultimi trent'anni del nostro Paese, come non ricordare che Peppino Impastato, Giuseppe Fava e Giancarlo Siani - esposti molto più di me e che prima di me hanno detto verità ora alla portata di tutti - hanno pagato con la vita la loro solitudine. E la volontà di volerli ridurre, in vita, al silenzio.

Sono sempre stato fiero, invece, di essere stato vicino a un'altra parte di Napoli e del Sud. Quella che in questi anni ha approfittato della notorietà di qualcuno emerso dalle sue fila per dar voce al proprio malessere, al proprio impegno, alle proprie speranze. Molti di loro mi hanno accolto con diffidenza, una diffidenza che a volte ha lasciato il posto a stima, altre a critiche, ma leali e costruttive. Sono fiero che a starmi vicino siano stati i padri gesuiti che mi hanno accolto, le associazioni che operano sul territorio con cui abbiamo fatto fronte comune e tante, tantissime persone singole.

Sono fiero che a starmi vicino sia soprattutto chi, ferocemente deluso dal quindicennio bassoliniano, cerca risposte altrove, sapendo che dalla politica campana di entrambe le parti c'è poco da aspettarsi. Sono sempre stato fiero che vicino a me ci siano tutti quei campani che non ne possono più di morire di cancro e vedere che a governare siano arrivati politici che negli anni hanno sempre spartito i propri affari con le cosche. Facendo, loro sì, soldi e carriera con i rifiuti e col cemento, creando intorno a sé un consenso acquistato con biglietti da cento euro.

È stato doloroso vedere infrangersi un fronte unico, costruito in questi anni di costante impegno, che aveva permesso di mantenere alta l'attenzione sui fatti di camorra. È stato sconcertante vedere persone del tutto estranee alla mia vicenda esprimere giudizi sulla legittimità della mia scorta. La protezione si basa su notizie note e riservate che, deontologia vuole, non vengano rese pubbliche. Sono stato costretto a mostrare le ferite, a chiedere a chi ha indagato di poter rendere pubblico un documento in cui si parla esplicitamente di "condanna a morte". Cose che a un uomo non dovrebbero mai essere chieste.

Ho dovuto esibire le prove dell'inferno in cui vivo. Ho esibito, come richiesto, la giusta causa delle minacce. Sento profondamente incattivito il territorio, incarognito. Gli uni con gli altri pronti a ringhiarsi dietro le spalle. Molti hanno iniziato a esprimere la propria opinione non conoscendo fatti, non sapendo nulla. Vomitando bile, opinioni qualcuno addirittura ha detto "c'è una sentenza del Tribunale che si è espressa contro la scorta". I tribunali non decidono delle scorte, perché tante bugie, idiozie, falsità? Addirittura i sondaggi online che chiedevano se era giusto o meno darmi la scorta.

Quanto piacere hanno avuto i camorristi, il loro mondo, lì ad osservare questo sputare ognuno nel bicchiere dell'altro? Dal momento in cui mi è stata assegnata una protezione, della mia vita ha legittimamente e letteralmente deciso lo Stato Italiano. Non in mio nome, ma nel nome proprio: per difendere se stesso e i suoi principi fondamentali. Tutte le persone che lavorano con la parola e sono scortate in Italia, sono protette per difendere un principio costituzionale: la libertà di parola. Lo Stato impone la difesa a chi lotta quotidianamente in strada contro le organizzazioni criminali. Lo Stato impone la difesa a magistrati perché possano svolgere il loro lavoro sapendo che la loro incolumità fa una grande differenza.

Lo Stato impone la difesa a chi fa inchieste, a chi scrive, a chi racconta perché non può permettere che le organizzazioni criminali facciano censura. In questi anni, attaccarmi come diffamatore della mia terra, cercare di espormi sempre di più parlando della mia sicurezza, è un colpo inferto non a me, ma allo stato di salute della nostra democrazia e a tutte le persone che vivono la mia condizione. Sento questo odio silenzioso che monta intorno a me crea consenso in molte parti
Sta cercando il consenso di certa classe dirigente del Sud che con il solito cinismo bilioso considera qualunque tentativo di voler rendere se non migliore, almeno consapevole la propria terra, una strategia per fare soldi o carriera.

Ma mi viene chiesta anche l'adesione a un "codice deontologico", come ha detto il capo della Mobile di Napoli, il rispetto delle regole. Quali regole? Io non sono un poliziotto, né un carabiniere, né un magistrato. Le mie parole raccontano, non vogliono arrestare, semmai sognano di trasformare. E non avrò mai "bon ton" nei confronti delle organizzazioni criminali, non accetterò mai la vecchia logica del gioco delle parti fra guardie e ladri. I camorristi sanno che alcuni di loro verranno arrestati, le forze dell'ordine sanno in che modo gestire gli arresti che devono fare.

Lo hanno sempre detto a me, ora sono io a ribadirlo: a ognuno il suo ruolo. La battaglia che porto avanti come scrittore è un'altra. È fondata sul cambiamento culturale della percezione del fenomeno, non nel rubricarlo in qualche casellario giudiziario o considerarlo principalmente un problema di ordine pubblico.

Continuare a vivere in una situazione così è difficile, ma diviene impossibile se iniziano a frapporsi persone che tentano di indebolire ciò che sino a ieri era un'alleanza importante, giusta e necessaria. So che è molto difficile vivere la realtà campana, ma c'è qualcuno che ci riesce con tranquillità. Io non ho mai avuto detenuti che mi salutassero dalle celle, né me ne sarei mai vantato, anzi, pur facendo lo scrittore, ho ricevuto solo insulti. Qualcuno dice a Napoli che è riuscito a fare il poliziotto riuscendo a passeggiare liberamente con moglie e figli senza conseguenze. Buon per lui che ci sia riuscito. Io non sono riuscito a fare lo scrittore riuscendo a passeggiare liberamente con la mia famiglia. Un giorno ci riuscirò lo giuro.

© 2009 Roberto Saviano.
Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency


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(16 ottobre 2009)

14 ottobre 2009

C.U.N. - Canone Unico (Nazionale) di bellezza -

Dopo il caso Bindi: L’emergenza estetica nell’Italia maschilista
Per le donne in politica e in tv vige il Cun, il canone unico di bellezza

Allarme. Massima attenzione. Al­tro che emergenza democratica. Il Pa­ese sta attraversando un’emergenza estetica. Sulle nostre reti tv circolano ancora donne non corrispondenti al Canone Unico Nazionale (Cun) di gio­ventù e bellezza. Appena una settima­na fa, a Porta a Porta , il premier ha stanato Rosy Bindi. Non è bastato, an­zi: col suo «lei è più bella che intelli­gente », Berlusconi ha fatto imbestiali­re molte donne, chiaramente brutte e/o vecchie. Hanno molto protestato online; e tuttora, a giorni di distanza, frange estremiste di diversamente belle si aggirano per la penisola of­frendo le loro foto alla stampa estera e danneggiando l’immagine dell’Ita­lia. No, per carità, stavamo scherzan­do. L’ultima notizia non è vera. Le al­tre sì.

E il Cun c’è sul serio, sottotraccia, da anni. Per anni non ci abbiamo fat­to caso; magari convinte di essere avanzate e spiritose. Non eravamo co­me le americane, che per un battuto­ne sul lavoro minacciano cause da ot­tocento milioni di dollari. Noi ne ri­diamo. Né come le tedesche, con quelle scarpe comode ma orrende. Noi anche in ufficio arranchiamo sui tacchi. Né come le norvegesi, che per legge occupano la metà dei posti nei consigli di amministrazione. Iddio ci protegga dalle quote rosa; ci bastano le nostre scarse e molto rosee coopta­zioni. E via così. Oltretutto: gli uomi­ni italiani eterosessuali sono abituati benissimo. Possono tornare a casa, non cucinare, rilassarsi su vari canali guardando ragazze poco impegnati­ve e seminude. Per informarsi posso­no cliccare sui siti di news e distrar­si con parate di bellezze esotiche in tanga. Quando i soliti stranieri mole­sti ci chiedono «Non vi dà fasti­dio? », noi italiane rispondiamo «Non tanto»; più che altro per assue­fazione. Perché siamo parecchio assuefat­te, ed è un guaio collettivo.

Chi scri­ve l’ha detto e noiosamente lo ripe­te: cari connazionali, che senso di sé avreste se da quando siete piccoli fo­ste stati bombardati da immagini di fanciulli muti e discinti che affianca­no anziane signore petu­lanti? Se i pettorali e i glu­tei maschili venissero usa­ti per pubblicizzare qua­lunque cosa? Se aveste ri­petutamente visto rispet­tabili signori in età discu­tere e subito venire zittiti perché — a parere dell’in­terlocutrice — sono brut­ti? Non vi sentireste, for­se, tanto bene. Bè, la me­dia donna italiana è cre­sciuta così. E, in caso si sia temprata e si sia dedi­cata a migliorare le capaci­tà professionali invece dei muscoli addominali, nien­te sconti: lavorerà, ma in sala macchine. Ad appari­re saranno le belle, giova­ni e toniche. In tv come in politica. Dove il principale partito di opposizione ha inseguito il leader della maggioranza con trucchet­ti di immagine un po’ patetici (due capolista attraenti e ventenni alle ele­zioni 2008); e il leader della maggio­ranza ha scelto deputate e ministre di grandi doti anche estetiche. Alcu­ne sarebbero perfette in tv. Anzi, vengono dalla tv, come Mara Carfa­gna. E’ ministro delle Pari opportuni­tà, non ha detto una parola sugli in­sulti a Bindi. In effetti, a parte casi unici come Giorgia Meloni, le donne Pdl non hanno detto una parola su­gli insulti a Bindi. Sono lontani i tem­pi in cui le parlamentari, da An a Ri­fondazione, lavoravano insieme a leggi per le donne. E manifestavano insieme, in jeans, davanti a Monteci­torio, perché la Cassazione aveva de­ciso che se una ragazza porta i panta­loni stretti non è stupro.

Anche oggi ci sarebbero battaglie comuni da fare: contro un maschili­smo prepolitico-prevalente nella po­litica e nei media. E ora una minoran­za in aumento sta, come si diceva una volta, prendendo coscienza. Si soffre guardando documentari co­me Il corpo delle donne di Lorella Za­nardo, scaricabile online; si protesta via Web quando la dignità delle don­ne viene offesa; si rimbeccano i ma­schi che ti danno della strega inacidi­ta e ti dicono «non ti lamentare, stai benissimo, protesta invece per le donne islamiche» (sacrosanto; ma quelli che dicono così ricordano tan­to le nonne che gemevano «finisci la fettina, pensa agli indiani che muoio­no di fame», e non si capiva in che modo il nostro ingozzarsi avrebbe portato vantaggi agli indiani; delle donne senza potere non possono aiu­tare le donne senza diritti, oltretut­to). E si conta sui ragazzi, spesso più avanzati dei padri (o dei nonni; l’at­tuale emergenza misogina è in gran parte provocata da persone anziane; da rispettare, se rispettano noi; e poi speriamo, non si può non farlo).

Maria Laura Rodotà
14 ottobre 2009

11 ottobre 2009

A "denudare il re" non sono le solite femministe arrabbiate ma "donne molto diverse"

Dopo il caso Bindi, dibattito su sesso, potere e denaro alla Casa delle Donne di Roma
"A rivelare il machismo di Berlusconi sono figure come Veronica e la D'Addario"

La sfida delle femministe al premier "Cultura sessista, smascheriamolo"
di ALESSANDRA LONGO


ROMA - Che ne è della sessualità maschile? Che ne è della politica degli uomini e delle donne in questo scorcio di stagione dominato dalla volgarità, dagli insulti, dal "disordine" nel rapporto tra i sessi? Le femministe tornano a interrogarsi. In centinaia affollano la Casa internazionale delle donne di Roma per l'incontro convocato da cinque voci storiche: Maria Luisa Boccia, Ida Dominijanni, Tamar Pitch, Bianca Pomeranzi e Grazia Zuffa. Aula stracolma, gente in piedi (su 400 presenze una disciplinata decina di uomini, tra cui Valentino Parlato, direttore del "manifesto") e saletta d'ascolto aggiuntiva allestita all'ultimo minuto. La chiamata a raccolta, organizzata da tempo, arriva all'indomani delle offese a Rosy Bindi che riceve lunghi applausi "per quel che ha subito, per come ha reagito e per l'immagine che ha dato di sé".

Sesso, potere e denaro: si va al cuore del problema ed è un altro modo di affrontare "il degrado della cosa pubblica, l'uso privato delle istituzioni". "Nel silenzio plumbeo degli uomini, anche di quelli dell'opposizione" (Boccia), i comportamenti di Berlusconi certificano il cambio di scenario. Siamo in pieno "post-patriarcato", ci dicono le femministe, costrette a ricominciare l'analisi da dove l'avevano lasciata: "Il conflitto tra i sessi non è risolto, ha assunto una diversa configurazione". Il post-patriarca è un uomo sessualmente in crisi, "senza autorità e autorevolezza", ed esercita il suo potere sulle donne, trattandole come "corpi", cui non è chiesto, ovviamente, di esprimere pensieri, meno che meno dissonanti. Il post-patriarca può contare su connivenze maschili trasversali, fida nella "colonizzazione" delle menti alimentata da certa televisione, sfrutta (finora) il silenzio di un certo mondo femminile indignato al punto di praticare l'estraneità (è la tesi di Gabriella Bonacchi).

Ma il post-patriarca, che sia Berlusconi o i tanti emuli, trova sulla sua strada chi lo smaschera. E la sorpresa è che a "denudare il re" non sono le solite femministe arrabbiate ma " donne molto diverse", per estrazione, ruolo, cultura. Leggi Veronica Lario e Patrizia D'Addario. I loro nomi risuonano nella saletta affollata, pronunciati senza spocchia o imbarazzo: "Non abbiamo più paura di mescolarci, non siamo più costrette a dividerci tra sante e puttane". Ed è questo il retaggio liberatorio del femminismo anni Settanta.
Un femminismo che ha bisogno di perdere gli eccessi di autoreferenzialità verbale, qua e là emersi negli interventi, di aggiornarsi, di ripensarsi, di fronte "al mondo intero che cambia e, con esso, il rapporto tra i sessi" (Luisa Muraro). Ci si indigna, durante questo convegno: per "la fiction del femminile allestita dal regime tele-politico berlusconiano", e ripresa da certa carta stampata, "per la sinistra che non c'è, come fossimo all'anno zero della politica italiana" (così Cecilia D'Elia, Sinistra e Libertà, vicepresidente della Provincia di Roma). C'è delusione: "E' la sinistra che ci deve venire a cercare", sibila Muraro, teorica del pensiero della differenza. C'è rabbia fredda: "Il comportamento delle donne nei partiti è stato scandalosamente inutile, insignificante" (Alessandra Bocchetti).

Groviglio di analisi e sentimenti, sensazione di un terreno che, dopo le grandi battaglie del passato, sta franando sotto i piedi per troppe complicità maschili e troppe timidezze aristocratiche femminili: "Rischiamo di perdere due generazioni di donne", è l'allarme che viene dalla Casa di Roma. E allora ci si interroga su come arginare "la disperazione" violenta del post-patriarcato, di come forare l'insopportabile "opacità" della politica (Bianca Pomeranzi)", di come far arrivare sui media "le donne reali" e non la loro caricatura. Tutto buttato lì, con passione e concitazione, in una mattina di sabato, senza nemmeno la pausa pranzo, con la fretta di ricominciare un dialogo interrotto.

© Riproduzione riservata (11 ottobre 2009)