21 novembre 2009

Criminalità e Poteri: 50'anni di trame da talpe che tessono reti sotterranee e sempre più fitte

Il verbale del pentito Spatuzza. Il 4 dicembre deposizione al processo Dell'Utri
La "rivelazione" attribuita a uno dei fratelli Graviano. Che ha rifiutato il confronto
"Ho un patto con Berlusconi - Questo mi rivelò il boss"
di FRANCESCO VIVIANO


PALERMO - I boss di Cosa Nostra avrebbero avuto un rapporto "diretto" con Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Non ci sarebbero stati "mediatori" nel patto che sarebbe stato stretto tra la mafia ed i leader del nascente partito di Forza Italia per fare cessare le stragi iniziate nel '92 e continuate nel '93 con gli attentati di Firenze, Roma e Milano.

Ad affermarlo è l'ultimo pentito di mafia, Gaspare Spatuzza, i cui verbali con le dichiarazioni rese nell'estate scorsa ai magistrati di Firenze sono stati depositati ieri nel processo d'appello a carico del senatore Marcello Dell'Utri, imputato di concorso esterno in associazione mafiosa.

L'interrogatorio è del 18 giugno. È lì che Spatuzza racconta ai magistrati fiorentini di avere appreso direttamente dal boss Giuseppe Graviano, nel gennaio del '94 al bar Doney di via Veneto a Roma, che si erano messi "il paese nelle mani" perché - secondo quanto si legge nei verbali - avevano raggiunto un accordo con Dell'Utri e Berlusconi.

Spatuzza dice ai pm Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi della Dda di Firenze: "Ritengo di poter escludere categoricamente, conoscendoli assai bene (i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano ndr) che i Graviano si siano mossi nei confronti di Berlusconi e Dell'Utri attraverso altre persone. Non prendo in considerazione la possibilità che Graviano abbia stretto un patto politico con costoro senza averci parlato personalmente".

Spatuzza era il braccio destro dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano (entrambi in carcere con ergastoli per stragi e omicidi tra i quali quello del sacerdote Don Pino Puglisi e del figlioletto del pentito Di Matteo). Quando Giuseppe Graviano gli rivelò il "patto" che sarebbe stato stretto con Berlusconi, si trovava a Roma per preparare il fallito attentato allo Stadio Olimpico per uccidere decine di carabinieri.

Il pentito parla quindi dall'alto dei suoi rapporti privilegiati con i boss e ai pm fiorentini aggiunge: "Non posso sapere quale fosse il proposito che Berlusconi e Dell'Utri avessero in mente stringendo questo patto. La mia esperienza di queste vicende, ma è una mia deduzione, è che costoro (Berlusconi e Dell'Utri ndr) che in primo momento hanno fatto fare le stragi a Cosa Nostra, si volevano poi accreditare all'esterno come coloro che erano stati in grado di farle cessare. E quando poi li vedo scendere in politica, partecipando alle elezioni e vincendole, capisco che sono loro direttamente quelli su cui noi (Cosa Nostra-ndr) abbiamo puntato tutto".

Spatuzza racconta nei dettagli il colloquio avuto con il boss Giuseppe Graviano quando si incontrarono a Roma per la preparazione dell'attentato allo stadio Olimpico. In quell'occasione il boss gli parlò dell'intesa che a suo dire era stata raggiunta con Berlusconi: "Graviano era euforico e gioioso, sprizzava felicità, normalmente era una persona abbastanza controllata, quindi era difficilissimo che si lasciasse andare in quel modo, le sue parole sono state le seguenti: 'tutto si è chiuso bene, abbiamo ottenuto quello che cercavamo, le persone che hanno portato avanti la cosa non sono come quei quattro crasti (montoni-ndr) dei socialisti che prima ci hanno chiesto i voti e poi ci hanno venduti. Si tratta di persone affidabili'. A quel punto mi fa il nome di Berlusconi e mi conferma che si tratta di quello di Canale 5. Poi mi dice che c'è anche un paesano nostro e mi fa il nome di Dell'Utri e aggiunge che grazie alla serietà di queste persone "ci siamo messi il paese nelle mani'".

Queste dichiarazioni sono entrate nel processo a Palermo a Dell'Utri. Il pentito Spatuzza probabilmente il 4 dicembre prossimo nell'udienza fissata a Torino per il suo interrogatorio, potrà spiegare meglio all'accusa ed alla difesa il significato di queste pesanti affermazioni riguardanti Berlusconi e Dell'Utri.

Agli atti del processo sono finiti anche i confronti tra lo stesso Spatuzza ed i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano avvenuti rispettivamente il 20 agosto ed il 14 settembre. Confronti interessanti che possono contenere anche dei messaggi che gli inquirenti stanno tentando di decifrare perché nella storia di Cosa Nostra non s'è mai visto che i boss trattino un pentito come se fosse un amico. Giuseppe Graviano, che si è rifiutato di rispondere nel confronto, ha però detto in una recente udienza pubblica di "rispettarlo".

Filippo Graviano ha invece accettato il confronto confessando di avere avuto intenzione di "dissociarsi" da Cosa Nostra nei primi anni del 2000 quando l'allora procuratore nazionale, Pierlugi Vigna, aveva avviato una serie di colloqui investigativi, negando però di avere mai detto a Spatuzza che "se non arriva niente da dove deve arrivare - avrebbe detto Graviano riferendosi ai politici - anche noi cominciamo a parlare con i magistrati". Segno che, secondo Spatuzza la "trattativa" era ancora aperta. Ma nel confronto con Filippo Graviano, Spatuzza lo scagiona da pesantissime accuse, sostenendo di non avere mai ricevuto dal boss ordini per commettere omicidi e stragi invitandolo però a collaborare.

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(21 novembre 2009)

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Il mafioso ai giudici di Palermo parla dell'ultimo atto della "trattativa" tra cosche e Stato - Nel verbale il racconto dell'incontro nel '94 con Graviano che gli parlò di Berlusconi e Dell'Utri
Mafia, la verità del pentito Spatuzza - "Il boss mi disse: il Paese è in mano nostra"
di ATTILIO BOLZONI


PALERMO - C'è un mafioso che parla dell'ultimo atto della "trattativa". E di un altro attentato, di altri cadaveri, di altre protezioni politiche, dell'altro accordo che i boss cercavano con "con il nuovo partito". Così la racconta un pentito, quello che ha fatto riaprire tutte le indagini sulle stragi.
La testimonianza di Gaspare Spatuzza, uomo d'onore della "famiglia" di Brancaccio: "Giuseppe Graviano mi disse che la persona grazie alla quale avevamo ottenuto tutto era Berlusconi e c'era di mezzo un nostro compaesano, Dell'Utri... mi disse anche che ci eravamo messi il Paese nelle mani".
Era lui, Spatuzza, che avrebbe dovuto uccidere cento carabinieri allo stadio Olimpico di Roma all'inizio del 1994. Dopo Falcone e Borsellino nell'estate del 1992, dopo le bombe di Firenze e Milano e Roma nel 1993, i mafiosi avevano bisogno di "fare morti fuori dalla Sicilia per avere poi benefici per i carcerati e anche altri". L'ultimo massacro prima del patto finale.
Un verbale di 75 pagine riapre uno scenario che sembrava sepolto per sempre e fa scivolare ancora una volta - era già accaduto dopo il 1994 alle procure di Caltanissetta e di Firenze, procedimenti archiviati negli anni successivi - i nomi di Silvio Berlusconi e di Marcello Dell'Utri "nell'ambito delle stragi". Era la deposizione che mancava ai procuratori di Palermo nella loro investigazione sulla "trattativa" per legare ogni passaggio fra la prima e la seconda repubblica, fra Capaci e la nascita di Forza Italia, fra i primi contatti avuti dagli ufficiali dei Ros dei carabinieri con Vito Ciancimino nel giugno del 1992 alla mediazione "del compaesano Dell'Utri" del gennaio 1994. Una trama - secondo i magistrati - che troverebbe appunto "conferme" nelle rivelazioni di Gaspare Spatuzza, mafioso testimone delle manovre e dei giochi cominciati con l'uccisione di Giovanni Falcone. Dice Spatuzza nel suo verbale del 6 ottobre scorso al procuratore aggiunto Antonio Ingroia e ai sostituti Nino Di Matteo e Lia Sava: "Incontrai Giuseppe Graviano all'interno del bar Doney in via Veneto, a Roma. Graviano era molto felice, come se avesse vinto al Superenalotto, una Lotteria. E mi spiega che si era chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo. Quindi mi spiega che grazie a queste persone di fiducia che avevano portato a buon fine questa situazione... e che non erano come 'quei quattro crasti dei socialisti'.. ".
Il mafioso, che data questo suo incontro con Graviano a metà del gennaio 1994, ricorda dei socialisti - "crasti", cioè cornuti - che avevano promesso la "giustizia giusta" nell'87 e che erano stati votati da Cosa Nostra. Poi parla ancora del patto riferito da Giuseppe Graviano: "... Tutto questo grazie a Berlusconi, la persona che aveva portato avanti questa cosa diciamo, mi fa (Graviano, ndr) il nome di Berlusconi, io all'epoca non conoscevo Berlusconi, quindi gli dissi se era quello del Canale 5 e mi disse che era quello del Canale 5.. ".
Il racconto del mafioso fa un passo indietro. E riporta tutti i dubbi degli uomini d'onore su quello che era accaduto nell'estate del 1992 in Sicilia e, soprattutto, i dubbi sulla strategia stragista che i Corleonesi non volevano fermare: "Noi ci stavamo portando avanti un po' di morti che non c'entravano niente con la nostra storia... per me Capaci... è stata una tragedia che entra nell'ottica di Cosa Nostra, però quando già andiamo su, su Costanzo (il fallito attentato al giornalista, ndr), su Firenze... su.. ci sono morti che a noi non ci appartengono, perché noi abbiamo commesso delitti atroci, però terrorismo, sti cosi di terrorismo non ne abbiamo mai fatti". E' a quel punto che Gaspare Spatuzza manifesta altre perplessità a Graviano sulla strage che proprio lui - il mafioso di Brancaccio - sta preparando allo stadio Olimpico. Gli risponde il suo capo: "Con altri morti, chi si deve muovere si dà una mossa... significa che c'è una cosa in piedi, che c'è qualcosa che si sta trattando". Gaspare Spatuzza è insieme a Cosimo Lo Nigro, un altro boss. E Graviano chiede a tutti e due "se capiscono qualcosa di politica". E poi dice "che lui è abbastanza bravo, quindi è lui che sta trattando".
Nelle ultime pagine del verbale Gaspare Spatuzza ricostruisce il suo pentimento, il primo colloquio con il procuratore antimafia Pietro Grasso: "Sulla questione di via D'Amelio... siccome si erano chiusi tutti i processi, quindi sapevo a cosa andavo incontro, però mi dicevo: ho prove schiaccianti, perché se c'erano solo le mie parole sarei stato un pazzo a muovermi in questa storia, siccome avevo delle cose, riscontri oggettivi, quindi andavo sicuro. ". E' nell'aprile del 2008 che ha iniziato a parlare: "Il soggetto che io dovevo indicare aveva vinto le elezioni perché noi parliamo, aprile... Io arrivo fine, 17 aprile e quindi il soggetto che io dovevo accusare me lo trovo come capo del Governo... Al di là di questo, il ministro della Giustizia, quel ragazzino così possiamo dire... la figura di Dell'Utri... ". Il verbale di Gaspare Spatuzza nelle pagine seguenti alla numero 61 è fitto di omissis.

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(24 ottobre 2009)

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21/11/2009 - L'INCHIESTA - La Stagione Delle Bombe
Mafia, un pentito contro il premier [da: "La Stampa"]

Ecco i veleni del verbale Spatuzza: «Dietro le stragi ci sono Berlusconi e Dell'Utri»
RICCARDO ARENA


PALERMO. Entrano nuovi atti nel processo di Palermo contro Marcello Dell'Utri. Arrivano da Firenze, dove l'inchiesta sulle autobomba di Roma, Firenze e Milano, è in pieno svolgimento e potrebbe portare presto a clamorosi sviluppi sul fronte dell'individuazione dei mandanti esterni a Cosa Nostra.

Ieri il procuratore generale di Palermo Nino Gatto ha messo i verbali a disposizione dei legali del senatore del Pdl Marcello Dell’Utri, imputato di concorso in associazione mafiosa e già condannato a nove anni in primo grado. Si tratta delle dichiarazione del pentito Gaspare Spatuzza, da tempo al centro di voci che agitano la politica romana. Spatuzza sarà di nuovo ascoltato, dalla seconda sezione della Corte d'appello di Palermo, il 4 dicembre. L’interrogatorio si terrà, per motivi di sicurezza, lontano dalla Sicilia: a Torino, al palazzo di giustizia.

Nelle carte, l'ex reggente del mandamento di Brancaccio fa continui riferimenti ai propri referenti, i capicosca Filippo e Giuseppe Graviano, come fonti delle proprie informazioni su quella che, senza mezzi termini, definisce una trattativa con Silvio Berlusconi e Dell'Utri, per avere una sorta di copertura politica sulle stragi ancora da compiere: dopo gli obiettivi già attaccati si doveva colpire ancora, dare quello che il boss definisce «il colpo di grazia»: il devastante attentato all'Olimpico di Roma, contro i carabinieri. Racconta a verbale Spatuzza: «Gli infedeli erano Berlusconi e Dell'Utri... Prima gli hanno fatto fare le stragi e poi si sono accreditati come coloro che avevano la possibilità di farli smettere...».

E i boss, nel rivolgersi all'attuale premier e al suo delfino, trattarono attraverso intermediari, o direttamente? «No, non esiste - risponde Gaspare Spatuzza -. Conoscendo l'abilità e la personalità di questi soggetti, dei Graviano, non trattano con le mezze carte. Hanno sempre avuto nella vita i contatti diretti». Con il premier e con il «paesano» (concittadino) Dell'Utri, «che potrei anche dire che è una cosa nostra», i contatti sarebbero stati diretti. I pm toscani, Giuseppe Nicolosi e Alessandro Crini, giocano il tutto per tutto e mettono a confronto Spatuzza con gli stessi Giuseppe e Filippo Graviano. E qui le sorprese non mancano.

Perché più che un confronto, il faccia a faccia con Filippo è un colloquio tra vecchi amici. «Io voglio bene ai fratelli Graviano», dice Spatuzza. «Ma io non ho parlato con ostilità di te», risponde quello. «Tu mi rappresenti mio padre. Tuo fratello rappresenta mio padre». «Una fratellanza, okay. Ci siamo». È uno scambio di convenevoli. Forse anche di messaggi. E di «benedizioni»: è il primo dichiarante, cioè, ad essere in qualche modo avallato da un boss non pentito, irriducibile. Se proprio Graviano deve dire cosa diversa, è quasi in imbarazzo: «Mi dispiace dovere contraddire Spatuzza...». Conferme piene però non ne arrivano: «Non è vero che, come sostiene lui, io abbia detto che "se non arriva quello che deve arrivare dalla politica, è bene che noi parliamo con i magistrati". Non mi aspetto niente dalla politica...».

Ma la porta non è del tutto chiusa: «Non ricordo di averlo detto...». Spatuzza parla di conversione religiosa, di legalità, discorso che il capo irriducibile approva, gli mostra la famosissima foto del bimbo ebreo impaurito, a braccia levate del ghetto di Varsavia: «Queste sono le nostre vittime, don Puglisi, il piccolo Di Matteo...». All'altro fratello, Giuseppe, che rifiuta il confronto, consegna invece una lettera, che si conclude con una serie di messaggi e la firma di «tuo fratello in Cristo, Gaspare Spatuzza». Giuseppe Graviano, del resto, era già stato chiamato a esprimersi su Spatuzza in un pubblico dibattimento, contro l’ex senatore Dc Enzo Inzerillo, imputato a Palermo di mafia: in quella occasione Graviano era stato esplicito dicendo a chiare lettere che «io Spatuzza lo rispetto».

Ora Filippo Graviano, che ai pm presenta il suo ottimo curriculum universitario, una serie di 30 e 30 e lode ottenuti in esami sostenuti in carcere, lancia una serie di messaggi: «Non ti dico che stai mentendo, ti dico che io le cose non le ho dette. Mi dispiace» Potrebbe essere il nuovo passaggio, clamoroso, quelle che non fa dormire sonni tranquilli al premier: l’eventuale collaborazione di uno dei fratelli boss di Brancaccio.
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IL RACCONTO/Viviamo in un Paese che da anni è sotto la morsa di consorterie occulti

Nel 1983 la Banda della Magliana si era spaccata tra due "anime"...

Emanuela Orlandi, mistero italiano tra Vaticano, ricatti e De Pedis
di GIANCARLO DE CATALDO


LA (probabile) identificazione del (presunto) rapitore di Emanuela Orlandi, (forse) legato al boss Renatino De Pedis, personaggio di spicco dell'ormai mitizzata "Banda della Magliana". Le rivelazioni del pentito Spatuzza e la ricostruzione dei (possibili) retroscena delle stragi, ufficialmente mafiose, del '92/'93. Il rinvenimento del corpo carbonizzato di Brenda. Ci sono giorni in cui una persona normale apre il giornale e ha tutto il diritto di chiedersi: ma in che razza di Paese viviamo?

Per uno scrittore di romanzi criminali, la risposta è fin troppo facile: viviamo in un Paese che da anni è sotto il ricatto di consorterie occulte che interferiscono pesantemente con l'ordinato procedere della democrazia. Viviamo in un Paese percorso e agitato dalle scorribande di tessitori di trame che non si riescono mai ad afferrare nella loro astuta, ma talora persino trasparente, complessità. Viviamo in un Paese nel quale, in coincidenza con momenti topici di crisi economica, politica, sociale, la violenza, sia essa terroristica, mafiosa ovvero appaltata alla criminalità di strada, irrompe prepotente sulla scena. Per lanciare messaggi che soltanto "chi di dovere" è in caso di interpretare, per depistare, per condizionare, per seminare la paura o per distogliere l'attenzione generale da altre, più pressanti emergenze. Quasi che fossimo alle prese con una ormai endemica, eterna strategia della tensione.

Una strategia che si alimenta dei delitti di oggi e della bava vischiosa e torbida degli antichi misteri irrisolti. Irrisolti grazie al silenzio dei protagonisti, alla protezione di altolocati complici, alla menzogna e alla reticenza sistematicamente opposte a quei poliziotti, carabinieri e magistrati tenacemente impegnati a ricostruire, tessera dopo tessera, il mosaico. Irrisolti, infine, grazie al piombo e al tritolo con il quale "i buoni" sono stati fermati quando la loro opera si faceva troppo pericolosa.

Viviamo, in altri termini, in un Paese che ha scritto, negli anni, una sanguinosa epopea criminale. Dove, certo, non tutto è crimine, ma il crimine è una delle variabili costanti della Storia stessa. La recente storia criminale italiana ha caratteristiche così peculiari che se ne potrebbe persino tracciare una sorta di legge regolatrice, una ipotetica, amara "costituzione dei misteri". Dietro ogni crimine si può rinvenire una singolare, ferra eterogenesi dei fini. Ogni singolo crimine rimanda a un altro crimine, legato al primo da uno o più fini comuni. Il crimine si fa catena criminale.

La parola "mistero" consegna il tutto alla categoria dell'incognito. Non fa eccezione la vicenda umana e personale di Emanuela Orlandi, scomparsa da casa una sera d'estate di ventisei anni fa. Una storia che si intreccia indissolubilmente, da ventisei anni, con l'omicidio (ormai possiamo pacificamente definirlo per quello che fu: un omicidio) del banchiere Calvi, sconfinando in un intrigo internazionale che coinvolge servizi segreti stranieri e nostrani, il taciturno, riservatissimo mondo Vaticano, e, da qualche tempo, anche la Banda della Magliana.

Dall'inchiesta in corso ci si attende la risposta a domande anch'esse vecchie di ventisei anni. Nel corso del tempo si sono avanzate, su questa vicenda tanto oscura quanto straziante, svariate teorie. In estrema sintesi, tre gli scenari principali che vengono prospettati. Emanuela rapita per ricattare il Vaticano. Emanuela vittima, magari accidentale, di qualcuno interno al mondo Vaticano o comunque ad esso collegato. Emanuela scomparsa e vittima di qualcuno che non aveva niente a che vedere con il Vaticano. In queste due ultime ipotesi, un'azione criminale sarebbe stata utilizzata in un secondo momento per colpire il Vaticano: a sostegno di questa teoria, le dichiarazioni di alcune ex-spie dell'Est, che negano qualunque coinvolgimento reale nel caso e rivendicano di essersi abilmente inserite nel "gioco" con un sofisticato depistaggio.

E c'è chi sostiene (Pino Nicotri, in un suo documentatissimo saggio sulla vicenda) che furono "fonti aperte" a trasformare la scomparsa in rapimento, imprimendo una svolta decisiva, ma sciagurata, all'intera storia. Lo stesso ruolo della Banda della Magliana, adombrato da una dichiarazione televisiva dell'ex-boss e collaboratore di giustizia, Antonio Mancini, e poi ripreso dalle dichiarazioni, meno recenti e più attuali, della Minardi, non sfugge a questa alternativa: responsabilità diretta della Magliana nel fatto, o subentro, in una seconda fase, per aiutare qualcuno e danneggiare qualcun altro?

Ma altre questioni pone l'evocazione della Magliana. Delle imprecisioni nelle quali sarebbe incorsa, un anno fa, l'ultima testimone si è scritto e detto ampiamente. E infatti, sulla stampa, nei giorni scorsi, abbiamo letto di "rettifiche". In lunghissimi anni di storia processuale, poi, nel corso della quale si sono raccolte dichiarazioni sui più svariati delitti del tempo (dal caso Moro all'omicidio del giornalista Pecorelli, dalla morte di Calvi ai legami con neofascismo, logge massoniche e servizi deviati) mai si era accennato alla scomparsa di Emanuela Orlandi. O i non pochi "pentiti" del tempo di questa storia non ne sapevano niente, o sono stati accortissimi a parlare di tutto, meno che di Emanuela Orlandi.

Se fosse vera la prima ipotesi, se ne dovrebbe concludere che è improprio parlare, oggi, di un coinvolgimento della Banda della Magliana. A quanto pare, tutte le voci si riferiscono a un intervento personale di De Pedis. Come accertato dai processi, nel 1983 già la Banda si era spaccata fra le due "anime", quella più popolare, di strada, della Magliana vera e propria, e quella, più abile, spregiudicata e ben ammanicata, dei "Testaccini" di De Pedis. Fra capi e gregari era iniziato il regolamento dei conti, che sarebbe culminato, nel febbraio del '90, con l'uccisione dello stesso De Pedis.

La diffidenza regnava sovrana. Alcuni segmenti operativi dell'organizzazione agivano per proprio conto, spesso e volentieri all'insaputa gli uni degli altri. Ad esempio, l'uccisione di Danilo Abbruciati nel corso dell'attentato al vicedirettore dell'Ambrosiano, Rosone (Milano, aprile 1982) è un'azione che implica il coinvolgimento di un malavitoso di alto spessore, sicuramente legato alla Banda, in un delitto molto più complesso di una rapina o di un traffico di droga, sia pure su vasta scala. Sta di fatto che "quelli della Magliana" apprendono la notizia dal Telegiornale, e restano non poco sorpresi.

Possibile che sia andata così anche per Emanuela Orlandi? L'Italia, lo ripetiamo, ci ha abituato a tutto. Sappiamo che la Magliana, nelle sue varie anime, fu una holding criminale dai contorni tuttora inesplorati: ma sarebbe pericoloso, e fuorviante, farne un "brand" multiuso, una sorta di contenitore utile per l'attribuzione della paternità di delitti "scomodi". Sta di fatto che, con buona pace di revisionisti e normalizzatori, e dell'imperante narcosi da avanspettacolo, i misteri italiani continuano a ossessionarci con le loro domande irrisolte. E il grumo nero che opprime la nostra democrazia è ancora vivo, vegeto e operante. Si tratta di capire, oggi, chi lo rappresenta, come agisce, e per quali scopi. Non è facile, ma nemmeno impossibile.

© Riproduzione riservata: La Repubblica
(21 novembre 2009)

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