21 settembre 2006

:::::...continua..., su Goliarda...:::::



Non posso (o non riesco a)
creare un Link per far
apparire il bellissimo articolo
di Manuela Vigorita
su Goliarda,
lo riporto qui
senza linkarlo!

da: Buddismo e Società -
n.93 - luglio agosto 2002
Omaggio a Goliarda Sapienza:

"Se l'arte della gioia diventa libertà"

di Manuela Vigorita

«Ed eccovi me, a quattro, cinque anni in uno spazio fangoso che trascino un pezzo di legno immenso. Non ci sono alberi né case intorno, solo il sudore per lo sforzo di trascinare quel corpo duro e il bruciore acuto delle palme ferite dal legno. Affondo nel fango sino alle caviglie ma devo tirare, non so perché, ma lo devo fare. Lasciamo questo mio primo ricordo così com’è: non mi va di fare supposizioni o di inventare. Voglio dirvi quello che è stato senza alterare niente».
Comincia così L’arte della gioia, il romanzo a cui Goliarda Sapienza, dedicò dieci anni della sua vita.
Ne aveva già pubblicati due, di libri, autobiografici: Lettera aperta (Garzanti, 1967) e Il filo di mezzogiorno (Garzanti, 1969). Raccontavano della sua vita, della sua esperienza di bimba messa al mondo da una mamma rivoluzionaria, Maria Giudice, figura storica della sinistra italiana e già madre di quattro figli, assieme a Giuseppe Sapienza, anche lui già padre di tre maschi, soprannominato, nella provincia di Catania, “l’avvocato dei poveri”. Quei primi libri raccontavano dei suoi fratelli, sette, che le facevano leggere di nascosto tutti i libri “proibiti” dal fascismo, della casa in cui era cresciuta, tra una perquisizione e un’altra a opera delle camicie nere che perseguitavano i genitori, racconta dei pupi siciliani, della gente di lì, poi della sua venuta a Roma per guadagnare qualche soldo come attrice (era bravissima!), della morte della madre, ai cui funerali partecipò mezza Italia, del suo ricovero in un ospedale psichiatrico, del suo rapporto con il regista Francesco Maselli.
Goliarda comincia così a scrivere, raccontando di sé, con la sua carica espressiva e quel modo tutto suo di usare le parole e mettere in ordine i pensieri, un ordine irrispettoso di ogni schema narrativo. Irrispettoso, in verità, di tutti gli schemi, ma fedelissimo alla lucidità, spesso imbarazzante, con la quale Goliarda si sforza di continuo di cogliere i nessi e il senso degli avvenimenti, dei ricordi di una vita, come a comporre un puzzle in cui non tutti i pezzi possono combaciare.
L’arte della gioia, invece, è un’altra cosa, ha un’altra storia. È un romanzo, di quelli che non si leggono più tanto facilmente. È un mondo che si crea man mano che le parole aumentano, che aumentano i personaggi, le relazioni, le vite.
Quando sentì l’impulso di dare vita a Modesta, la protagonista di quel mondo, Goliarda cominciò a dedicarsi a lei senza risparmiare nulla. Iniziava a scrivere la mattina, con una penna biro, seduta su una poltrona, fino al pomeriggio. Il suo compagno di allora, Angelo Maria Pellegrino, racconta che lei «diceva sempre che scrivere significa rubare il tempo anche alla felicità. Fumava molto, come un po’ tutti allora – si legge nella prefazione al libro Arte della gioia – La giornata di lavoro si concludeva poi spesso con un bagno caldo. Nel tardo pomeriggio suonava alla porta una assai più giovane amica, Pilù…>>. Goliarda leggeva a lei le pagine appena scritte, e a volte anche a Peppino, il portiere del suo palazzo. Aveva bisogno di vedere che reazioni suscitava, come reagivano i suoi amici a quella realtà che via via le parole andavano costruendo.
Per dieci anni non fece che scrivere. Vendette tutto ciò che possedeva di valore: quadri, disegni, sculture regalatele da amici artisti, una cassapanca del Settecento, dovette affrontare pignoramenti, visite di ufficiali giudiziari, avvisi di sfratto, tutto pur di continuare a dar vita alla sua Modesta, o Mody. Difficile descriverla in poche righe, difficile riassumere un’opera così.Modesta è una donna che desidera. Anzi, è prima una bambina violentata dalla vita, che riesce a sopravvivere come può, aggrappandosi a qualsiasi cosa, qualsiasi stratagemma, qualsiasi amore. Ed è la storia della sua vita, della vita che una donna riesce a creare dal nulla, grande, potente, potentemente capace di allargarsi e partorire un mondo, il suo. Dove c’è spazio per tutto, e se non c’è si crea. C’è spazio per le emozioni, le crisi, l’amore per le donne e quello per gli uomini, l’amore per i figli e le figlie, non solo i propri. C’è spazio per imparare a usare il denaro e non farsi usare, per la politica, la gioia, i dolori. C’è spazio per la libertà, quello che bisogna imparare a costruire per permettere ai desideri di camminare, c’è spazio anche per sbagliare. Per guardare gli altri crescere e lasciarli andare via felici, per imparare a invecchiare senza paure, senza smettere di desiderare e costruire e cambiare.
Per dieci lunghi anni Goliarda continuò a creare quel mondo, quello spazio, tramite la sua Modesta. A volte non aveva niente da mangiare, a volte la aiutavano gli amici, a volte era triste perché alcuni personaggi dovevano andarsene dal libro, ed era come dover salutare un figlio o una figlia per sempre.
Poi, arrivarono i primi rifiuti delle case editrici, dei critici letterari. Era la metà degli anni Settanta. Troppo presto, forse. Troppo presto per capire la libertà di Modesta. Quella libertà che non si piega alle regole, non si piega alle lusinghe, non si piega davanti a nessuna sconfitta o delusione. Goliarda chiuse il suo libro e continuò semplicemente a vivere. Alcuni amici, anni dopo, proposero il suo nome per il premio Bacchelli, ma le fu rifiutato perché non aveva la fedina penale immacolata: qualche tempo prima aveva commesso infatti un piccolo furto ed era stata in carcere, a Rebibbia.
Dall’esperienza del carcere Goliarda sembrò, comunque, stranamente uscire quasi ringiovanita: scrisse L’Università di Rebibbia (Milano, Rizzoli, 1983), in cui raccontava la sua esperienza, le sue amicizie con alcune donne carcerate. Poi Le certezze del dubbio (Pellicanolibri, 1987), dove segue alcune compagne di carcere dopo che sono uscite, nell’altro “carcere”, quello vero, diceva lei, quello di una città, di una società che non ti accetta davvero, o semplicemente non ti capisce.L’esperienza teatrale, fatta da giovane, le tornò utile. Iniziò infatti a insegnare recitazione presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, a Roma, iniziò a prendere la metro tutti i giorni per andare dai suoi alunni, dalle sue alunne, e aveva quasi settanta anni.
La ricordano tutti come una persona straordinaria e insopportabile, schietta, ribelle, scomoda: neanche lei si piegava tanto facilmente. Quando morì, in una piccola casa nel centro storico di Gaeta, cadendo dalle scale, era sola. Andava spesso in una spiaggetta lì vicino a prendere il sole, a nuotare, e c’è una signora in un chiosco che se la ricorda, e che se le chiedete di Goliarda ancora oggi si commuove e le vengono le lacrime agli occhi, ma non per dolore, per l’ammirazione, per l’amore.
Goliarda se ne va sola e in silenzio nel 1996. E lascia scaffali pieni di centinaia di poesie, alcune opere teatrali, taccuini, romanzi inediti. Tra gli altri la sua Modesta, l’arte della sua gioia. Non vedrà mai quel libro pubblicato, non vedrà mai Modesta girare per gli scaffali delle librerie, passare da una mano all’altra, arrivare agli occhi di una donna e poi di un’altra. L’arte della gioia verrà pubblicato per intero solo due anni dopo la sua morte, da Stampa Alternativa, in mille copie andate vendute quasi tutte, tanto che è difficilissimo trovarne una in giro. Chi l’ha letto però ne rimane segnato, chi l’ha letto dice che quel libro insegna a desiderare. E si stanno muovendo tante persone, una lunga rete di donne, dall’Università La Sapienza di Roma, alla Libreria delle donne di Bologna, alla RAI, per continuare a farla vivere l’arte di Modesta, con gioia, con speranza, con amore, per fare in modo che quel messaggio di potenza e libertà femminile non vada perso.
Chi l’ha letto, quel libro, ringrazia Goliarda di essere esistita, di averlo scritto, di aver donato a Modesta e a noi la sua vita.

...e grazie a Manuela Vigorita!

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