09 marzo 2007

"Per cambiare l’odio io comincio da me" - Intervista a Mariane Pearl

Come omaggio al coraggio delle donne, in coda ad un 8 marzo appena trascorso, posto un'intervista alla giornalista regista Mariane Pearl, condotta e scritta da Monica Piccini nel 2004, e pubblicata sulla rivista bimestrale "Buddismo e Società" (n.103 marzo aprile 2004), da cui l'ho tratta.
Data la sua lunghezza non la riporto integralmente, ma le parti tagliate sono minime.

Scrive Monica Piccini:


"Mariane Pearl è la vedova del giornalista del Wall Street Journal decapitato dagli integralisti islamici nel gennaio 2002 in Pakistan. Pratica il Buddismo da circa venti anni. Due anni fa, al momento del sequestro del marito, rivolse un appello in mondovisione ai rapitori in un tono così pacato da attirare l’attenzione di molti. Quella tragica esperienza è raccontata in prima persona in un libro:
"Un cuore grande" (Sonzogno editore, pp. 319, 17 euro).

Il racconto prende le mosse dal pomeriggio del 23 gennaio 2002 quando, davanti al ristorante Village Garden di Karachi, Daniel Pearl sale su un’auto che dovrebbe portarlo a incontrare Mubarak Ali Shah Gilani, capo di un gruppo islamico iscritto dall’FBI nella lista delle organizzazioni terroristiche.
Pearl sta indagando sull’ispiratore di Richard Reid, l’uomo che voleva farsi saltare sul volo di linea Parigi-Miami con le scarpe imbottite d’esplosivo.
La sera stessa Mariane, incinta di cinque mesi, l’aspetta per cena a casa di amici.
Danny non arriverà mai.
Viene invece condotto in una casa colonica in un sobborgo della capitale pakistana, dove sarà tenuto prigioniero otto giorni.
Il 31 gennaio gli integralisti islamici lo decapiteranno.
Un video con le sue ultime parole («Mio padre è ebreo, mia madre è ebrea, io sono ebreo») e i dettagli dell’esecuzione verrà recapitato al consolato americano di Karachi il 22 febbraio.
Quasi tre mesi dopo, il 17 maggio, il suo corpo mutilato in dieci pezzi sarà ritrovato sotto un metro di terra.
A fine maggio Mariane mette al mondo Adam, un nome importante, il nome del primo uomo sulla terra per il bambino che secondo suo padre avrebbe contribuito a far sì che «durante la sua vita ci fossero più persone pronte a dare la vita per la pace che non per l’odio nel loro cuore».

Mariane, praticante buddista da vent’anni, nei giorni che seguono il rapimento del marito dà il via a un’operazione di antiterrorismo vera e propria cui partecipano la polizia pakistana, i servizi segreti americani e le forze diplomatiche di entrambi i paesi. Una convivenza forzata che ha cambiato profondamente la vita di tutte le persone chiamate in causa, a cominciare dal Capitano, il poliziotto pakistano – musulmano osservante – che all’inizio delle indagini aveva assicurato di portare a casa Daniel sano e salvo e che per primo invece dà a Mariane la notizia del terribile verdetto."


-L'intervista-


Com’è la tua vita adesso, a due anni di distanza dalla morte di Daniel?

La situazione è ancora surreale. Le cose non hanno ancora ripreso un andamento normale. Ho perso la nozione, non tanto della normalità, quanto della continuità, perché la mia vita negli ultimi dieci anni è cambiata molte volte e sempre in maniera radicale. Al momento la mia vita consiste soprattutto nel parlare di questo libro, uscito in diciotto differenti paesi, tra cui il Giappone, e di argomenti inerenti alla vicenda di mio marito. Cerco di comunicare il più possibile la sua convinzione che per cambiare l’odio nei cuori delle persone bisogna cominciare da se stessi, e nel caso di un giornalista, nel dar voce alle persone oppresse. Parlo molto con la stampa, a volte scrivo anch’io articoli (Mariane, anch’essa giornalista, è una pluripremiata regista di documentari) e poi cerco anche di costruire una vita stabile per mio figlio Adam. Finora abbiamo viaggiato molto. Da qualche mese abitiamo a New York, perché gli Stati Uniti per me in questo momento rappresentano il futuro, anche professionale.

Qual è per te il messaggio più importante di questa terribile vicenda?

La cosa essenziale è la responsabilità individuale, rendersi conto che ognuno di noi ha uguale responsabilità nel contribuire all’evoluzione della società, in particolar modo nell’ambito di questi nuovi conflitti, tutt’altro che risolti. Sono guerre destabilizzanti per l’intera pace mondiale, perché non hanno niente a che fare con le guerre tradizionali e per come le abbiamo conosciute finora. Ormai si è rivelata falsa anche la sicurezza di cui abbiamo goduto per tanti anni in Europa, convinti che la guerra fosse altrove. Adesso realizziamo che non è più così. Per quanto riguarda il terrorismo, per esempio, sappiamo che si sviluppa in occidente (Omar Sheik processato in primo grado per l’uccisione di Pearl è un inglese di buona famiglia, laureato alla London School of Economics, folgorato alla causa islamica dopo un viaggio in Bosnia). È un fenomeno multisfaccettato, che si avvale di molte cellule disseminate un po’ dovunque e, come al solito, le vittime di queste violenze sono persone normali. Scrivendo un libro su ognuno di loro chiunque si renderebbe conto di quanto la guerra è assurda. Non si parla di simboli, ma di persone. Per trovare una soluzione all’odio integralista esistono varie prospettive. È vero, la politica ha il suo compito, la repressione poliziesca ha il suo peso, però fondamentalmente si tratta di una riforma individuale. È necessario rieducare le persone, secondo un lavoro lungo e difficile. La vera posta in gioco adesso è il mantenimento del dialogo, l’unica risposta da dare ad Al Qaeda che fanaticamente vuole questo clash (scontro) tra le civiltà.

Come si esprimeva la responsabilità di Daniel nel suo lavoro?


Per lui il giornalismo era etica, etica pura. Era molto minuzioso, secondo lui bisognava fare sempre un miglio in più. Non l’ho mai visto fare compromessi con la verità, indipendentemente dal prezzo che ci fosse da pagare. Daniel era mosso da una profonda esigenza nei confronti di se stesso. A un certo momento, in quanto individuo, devi decidere come vuoi vivere, stabilire delle soglie entro le quali muoverti liberamente. Lui viveva in base a questa sua etica. Questa è la responsabilità individuale. Non è una questione solo di idee, è anche legata all’azione. La questione è essere all’altezza di questa visione nel quotidiano, indipendentemente dal mestiere che uno fa e dal paese in cui vive. Bisogna riuscire a capire fino a che punto un individuo lotta per essere quella persona che ha deciso di essere.

Chi è stato a uccidere Daniel?

L’esecutore materiale della sua morte si chiama Khalid Sheik Mohammed, un cittadino yemenita detto anche l’architetto di Al Qaeda. Una sorta di ingegnere del male, lo stesso che ha ideato l’attentato alle Torri Gemelle l’11 settembre.
Secondo la Casa Bianca, quando gli americani l’hanno catturato – non so se sia vero o meno – ha confessato di aver impugnato lui l’arma che ha ucciso Danny. Al Qaeda è una specie di assemblaggio temporaneo di alcune organizzazioni fondamentaliste, tenute insieme solo dalla disperazione. Le persone reclutate sono molto spesso prive di ogni formazione, non hanno speranza, sono completamente accecate dalla rabbia. E questo è il risultato della storia. In Pakistan e in Afghanistan si arruolano ad Al Qaeda i figli dei mujahiddin che in passato hanno combattuto prima i russi e poi gli americani. E tutti quanti trovano la loro collocazione in quest’organizzazione priva di ogni forma d’ideologia. Non esiste un programma, delle proposte, non c’è nulla, è distruzione allo stato puro.


Hai guardato negli occhi gli assassini?

No, al momento del processo di uno dei mandanti, Omar Sheik, ero ormai incinta di nove mesi. Ero a Parigi e non potevo più viaggiare.

Però confesso che ho esitato quando mi hanno riferito che lui voleva vedermi. Non so per dirmi cosa. Il problema era sapere se effettivamente mi volesse parlare e soprattutto se anch’io avessi voglia di parlargli. Per dirci cosa? Ho cercato di capire per quale motivo avrei voluto vederlo. L’unico motivo valido era fargli confessare che stava mentendo. Perché una persona che recluta dei giovani attraverso una promessa del tipo «se partecipi alla jihad andrai in paradiso» sta mentendo. Non ci crede neanche lui a ciò che va dicendo. Lo so perché, prima del processo, aveva il terrore di essere estradato negli Stati Uniti sapendo che sarebbe stato condannato a morte. All’idea di morire non ha certo pensato che ad accoglierlo ci sarebbe stato il paradiso. Eppure era ciò che raccontava agli altri. In Pakistan l’hanno condannato all’impiccagione, ma difficilmente eseguiranno la condanna.

Qual è per te il senso della morte di Danny, se c’è?

C’è un senso profondo, altrimenti sarebbe morto nell’anonimato. Posso dimostrarlo perché nelle lettere che ho ricevuto, e che lo riguardavano, la gente ha capito delle cose essenziali della propria vita, come per esempio a cosa dedicarla e perché conservarla. Quando Danny è morto io e migliaia di sconosciuti abbiamo deciso di spingere l’impegno ancora più a fondo. In questo senso è diventato un simbolo. È un po’ come se la sua morte avesse convalidato tutti i valori che aveva scelto durante la vita. Questo è importante e non è una banalità. Se ci si pensa bene, è raro morire per qualcosa, comunque. Quindi, indipendentemente dall’aspetto affettivo che ci lega, Danny ha coronato con successo la sua vita. Forse non avrebbe avuto lo stesso impatto sulle persone vivendo fino a novant’anni, non lo so. Il significato profondo della sua morte è l’influenza che ha esercitato su tutti. Questo non è avvenuto, ad esempio, per le vittime delle Torri Gemelle, anche se è esattamente lo stesso atto di violenza compiuto dagli stessi fanatici. La sua morte forse è riuscita a dare un volto umano al conflitto che viviamo. Perché molte persone hanno capito che tutti possiamo essere coinvolti, Daniel poteva essere loro figlio, padre, marito. È diventato un membro della loro famiglia. Ecco a cosa è servito. Una specie di esempio di uomo universale.

Quando dici che è morto indomito intendi questo?

Ci sono vari motivi per cui lo dico. Da un lato è stata una persona a cui hanno legato realmente le mani (in una delle foto divulgate dai sequestratori ha entrambe le mani incatenate ed è vestito con una tuta bicolore, di quelle che non avrebbe mai indossato), e che pur non potendo più parlare né scrivere, è riuscita comunque a comunicare su scala mondiale chi era veramente. Se in qualche modo avesse ceduto a ciò che gli imponevano i suoi carcerieri, non avrebbe avuto lo stesso impatto sulle persone. All’ultimo momento è stata evidente la vittoria della sua mente su quella dei suoi assassini. Il secondo motivo per cui lo dico è per via della dichiarazione che Danny ha rilasciato nel video prima di essere decapitato. Svela un dettaglio (dice che in una città israeliana c’è una strada che porta il nome di un suo avo) che nessuno poteva sapere, e che equivale a dire: «Ecco io sono quello che sono, andate al diavolo».

Una sorta di messaggio cifrato per la sua famiglia, la sola che avrebbe capito, per farci sapere come, persino davanti alla morte imminente, non aveva rinnegato se stesso. In quei giorni Danny ha fatto di tutto per comunicare il suo spirito indomito: dalla foto, con il dito medio alzato, a quando, a capo chino con la pistola piantata alla tempia, sorride. Il terzo motivo per cui lo dico è per me stessa. Perché non sarei riuscita a risalire la china se lui non avesse avuto quest’atteggiamento fino alla fine.

Perché?

Siamo stati sempre molto vicini, anche in quest’esperienza. E se avessi capito che non era stato in grado di resistere spiritualmente, che qualcuno aveva avuto la meglio sul suo spirito, non avrei reagito così come sto facendo oggi.


Qual è stata per te la lezione più difficile da imparare?

Inizialmente tutte le energie mi servivano per trovare Danny. Ero un po’ come un poliziotto. Per far questo però dovevo essere in grado di controllare la paura. Sapevo che l’unica cosa che queste persone volevano provocare in me era il panico. Quindi mi sono messa nella condizione mentale di difendermi, allo stesso modo di Danny. Se qualcuno ti punta una pistola in faccia e ti rapisce, la prima cosa che ti viene in mente, appunto, è come non perdere la calma. Dal canto mio sapevo che se cominciavo a farmi prendere dall’angoscia anche lui, e le persone intorno a me, si sarebbero fatte soggiogare dalla paura. Poiché io non mi facevo sopraffare dall’angoscia tutti gli altri continuavano ad agire. Poi, quando ho saputo che era morto, non ho avuto più paura. Ero arrivata in un punto in cui non avevo più paura. Paura di che cosa? Se lo sai non hai più paura.


Come hai fatto a gestire la paura?

Bisogna cercare di calarsi nel contesto quando si fa una lotta del genere, in cui non si dorme, si mangia a stento e si ha un solo obiettivo: ritrovare chi è stato rapito. Per cinque settimane non abbiamo fatto altro che cercarlo. La paura ti viene quando non agisci, mentre io, mettendo in campo tutte le mie forze, stavo guardando in faccia la realtà. Quando arrivi in fondo a una situazione, per quanto terribile, niente ti fa più paura. Danny era immobile fisicamente però anche lui – ne sono convinta – dedicava tutta la sua energia a non farsi prendere dal panico. La paura è una specie di bestia selvatica che può essere addomesticata. Non è un’emozione assoluta che non può essere vissuta diversamente. Nella sfida il terrore spariva. Se pensi: «Forse mi attaccheranno, oppure non mi attaccheranno, boh», allora lì si può aver paura. Però una volta che hai di fronte il nemico allora si fa come fa Danny, li si manda al diavolo. Mi rendo conto che è difficile da spiegare…


Hai recitato Daimoku in quei momenti?


Durante le prime due settimane lavoravamo ininterrottamente notte e giorno, però dopo l’arresto di Omar Sheik la situazione si è fatta molto più difficile, perché lui continuava a contraddirsi. Diceva che Danny era vivo, e dopo poco che in realtà era già morto. Lì ho recitato Daimoku molto di più. L’ho fatto per salvarlo, certo. Però ero già arrivata a un punto di consapevolezza abbastanza estremo. Non sapevo se Danny sarebbe morto o si sarebbe salvato. A quel punto della battaglia la cosa più importante era: «Non ci prenderanno», nel senso di «non ci domeranno». Io sapevo che se avessi avuto paura della morte quello sarebbe stato il mio limite, e quindi dovevo superarlo. La cosa più importante era diventata questa sfida nei confronti di chi voleva uccidere Danny per distruggere il suo modo di pensare. È un po’ come quando ti trovi di fronte a delle persone che ti vogliono ammazzare a causa di quello che realmente sei. In quel momento la cosa più importante diventa: «Difendo quello che sono» e non tanto: «Farò di tutto per cercar di vivere». Mi rendo conto che è una situazione abbastanza estrema, che travalica una qualsiasi esperienza di normalità.

Per quale motivo hai cominciato a praticare il Buddismo di Nichiren Daishonin?

«Perché no?», mi domandai quando vent’anni fa, ormai, presi parte a una riunione di buddisti a Parigi, la città dove sono cresciuta. Rimasi colpita nel vedere la diversità delle persone che erano lì riunite. Mi chiesi quale fosse il denominatore comune tra persone così diverse e ciò che mi colpì di più era che quelle persone non volevano assolutamente assomigliarsi. Erano completamente diverse, ma il Buddismo sembrava funzionare ugualmente per tutti. Avevo diciassette anni. Qualche tempo prima avevo messo il giubbotto di mio fratello e avevo trovato in tasca il libretto di Gongyo dicendomi: «Oddio appartiene a una setta». Mi ero presa anche paura e così decisi di andare a una riunione della Soka Gakkai. Ho iniziato così.


Ti è stato utile praticare il Buddismo in questa vicenda?

Assolutamente sì. È stato anche un vero termometro, perché ho sempre fatto affidamento sul Buddismo da quando lo pratico. Però tre anni fa non sarei stata in grado di dire se questa pratica mi avrebbe consentito di attraversare un’esperienza così estrema. Oggi l’ho verificato e sono totalmente convinta che recitando Nam-myoho-renge-kyo non ci sono ostacoli che non si possano superare.


Pensi che le persone che incontri capiscano il tuo messaggio?

Molti sì. Altri, quelli che non vogliono sentire, no. Ma non importa, ci sarà sempre qualcuno che è pronto per questo tipo di messaggio. Però mi sembra incredibile come molte persone che hanno dei figli possano non interrogarsi su questioni del genere. Non mi sembra che quello che dico sia incomprensibile, per lo meno spero.

Come hai superato la mancanza di Danny?

Come qualsiasi lutto. Non è facile. La sua assenza è difficile e crudele. Ma è il prezzo da pagare. È il senso dell’obiettivo superiore rispetto all’elemento emotivo. Quando faccio delle cose che hanno un significato profondo so che vanno a vantaggio anche di Daniel. Quando invece permetto che le emozioni mi sommergano sento di prendere una strada senza via d’uscita. È normale, quando sei triste lo esprimi, ma poi ti rialzi e vai avanti. Con l’arrivo della morte non puoi più far nulla, non puoi più agire. Questa è la differenza tra la vita e la morte. Finché sei vivo devi fare quante più cose possibili perché la vita ha un termine. L’esistenza è come un grande libro in cui ognuno di noi ha una pagina da riempire, con un inizio e una fine. Se non hai voglia di scrivere nulla non scrivi nulla, però un bel giorno non potrai più farlo. Dipende da te. Questa è la crudeltà dell’esistenza. Finché si è vivi bisogna fare delle cose, e possibilmente non solo per se stessi. Perché se scrivi solo per te, e gli altri fanno lo stesso, la tua pagina non avrà nessun interesse per gli altri e non contribuirà al romanzo nel suo complesso. Adesso Danny non può più fare nulla. Se non agisco io che senso ha essere una coppia?



17 commenti:

Casa Russia ha detto...

Ho giusto il tempo a lasciare un paio di commenti in giro e poi debbo scappare al lavoro. Il tuo post è bello ungo (tanto per cambiare he he he) e ho bisogno di tempo per leggerlo e lasciare un commento sensato.
Ti saluto calorosmente e alla prossima.
G.

ventodiprimavera ha detto...

Finalmente un post con un intelligente visione dell'8 marzo.
Come stai??
Non ti sento piu'.

assunta altieri ha detto...

Post molto interessante. Vale la pena leggerlo.
So cosa significa perdere una persona a cui si vuol bene in questo modo.
Perciò invito tutti a dare voce nei propri blog al rapimento di Mastrogiacomo. E' importante che il Governo capisca che tutto il popolo italiano è in angoscia, che non è disposto a perdere un altro solo uomo, un altro solo giornalista. Non possiamo accettare un altro caso Baldoni. Non possiamo accettare altri lutti, neppure se poi, dopo, come appare da questa intervista, si ritrova in qualche modo la serenità.

Anonimo ha detto...

Scusa l'assenza di questi giorni e scusa la fretta... Ho letto l'intervista con un groppo alla gola, ma anche con orgoglio, l'orgoglio per la forza, la capacità di reagire, la serenità di questa donna come essere umano.

Raggiungere la consapevolezza che la nostra opera individuale è importante e necessaria per tutti, che nessuno può fare finta che quanto succede non lo riguardi, è la pietra miliare da cui può partire una spinta sufficiente a salvare l'umanità.

daniela ha detto...

L'avevo letta l'intervista, e mi aveva molto colpito da subito... più che altro il viso solare e radioso di lei, nonostante tutto quello che aveva passato. E anche il fatto che si parli di responsabilità, di senso, in una situazione in cui sarebbe stato facile farsi catturare dal non-senso e dalla disperazione.
Che grande amore che c'era tra quei due! Ecco, quando penso all'amore che vorrei penso proprio a una cosa del genere. Unione di ideali e di vita (e di morte, direi).
E' bello sapere che anche se hanno ucciso il corpo d Danny, non ne hanno potuto uccidere lo spirito.

Ho anche riflettuto sui vent'anni di pratica, e sulle guide che ho sentito, a Sergay e a altri, riguardo l'aspettare 20 anni... chissà.. io tra 20 anni ne avrò 50. Mi sembra così tardi per ricominciare. Speriamo che non dovrò aspettare tanto :-)

danDapit ha detto...

CasaRussia
Ciao Grig! Ti aspetto per quando ripassi...sì, lo so che il mio post TANTO PER CAMBIARE è "bello lungo"! ^___^
Un bacio e una tirata d'orecchie!

VentoDiPrimavera
Ciao! Anch'io non ti sento più!
Servono aggiornamenti...
;o)
bacini...

@Assu
Mi sposterò a leggere cosa hai scritto su Baldoni, sono passata ma non ho letto ancora!

La serenità che sembra "aver ritrovato" Mariane, è una serenità che lei sta cercando di costruire, per sè e per Adam, ma una vita che non c'è più, e per motivi che sono solo "cieche distruzioni contro l'umanità", è una vita di meno e basta!

Per questo ho postato l'intervista: per un coraggio, coraggio di una donna dal grande spirito combattivo e indomito, che è forza di vita, e va raccontato!
A presto!

@Angelo
Bellissime le tue parole, le condivido in pieno!
Grazie e a presto!!!

@Daniela
Dani, da quando lessi l'intervista, non l'ho più dimenticata.
Lo spirito di Mariane, il suo coraggio, mi hanno lasciato un solco dentro!
Non posso immaginare il trascorrere degli ultimi mesi di una gravidanza in una situazione così disperante e disperata...
Eppure nella sua vita è accaduto!

E' accaduto nonostante ...
Nonostante ciò che "noi" sappiamo non essere una bacchetta magica, anche se poi ce lo aspettiamo!

Quando si parla di vent'anni di pratica per arrivare ad un certo traguardo, non vuol dire che ti ci vogliono 20 anni per "esistere", per nascere...per "iniziare"!
E' un percorso!
Lo faresti comunque, nel tuo vivere quotidiano; praticando afferri più velocemente i punti nodali e trasformi con più dinamica...
E qui non aggiungo altro!!
Un bacione!

Morgan ha detto...

"Posso dimostrarlo perché nelle lettere che ho ricevuto, e che lo riguardavano, la gente ha capito delle cose essenziali della propria vita, come per esempio a cosa dedicarla e perché conservarla"...

Questo mi appare focale.

lucia ha detto...

Ho capito che la morte di alcune persone illumina la vita di altre da quando la perdita di una persona cara mi ha salvata dal buio.
Leggo questa intervista prima di andare a dormire, e m lascio cullare dalla serenità di Mariane e da un canto che intono di recente e che fa più o meno così:
Nam-myoho-renge-kyo
Ti bacio cara Danda.
A presto

danDapit ha detto...

@Morgan
...sì, è importante focalizzare a cosa dedicare la vita, e perchè ha valore conservarla.
Tutti abbiamo una missione, scoprirlo è far luce dentro...

@Lucia
Il tuo canto mi riempe di gioia, le tue parole mi aprono al sorriso...
Buio e luce si alternano, si combattono, solo uno dei due vince...
E tu porti il nome della Luce nascosto fra le ciocche d'una bella Elena di cui Omero cantò scompiglio...

Dolci baci sorridenti ^____^

Pier ha detto...

Un'intervista interessante e profonda, che sottolinea la continuità della vita e la forza salvifica della Fede...

danDapit ha detto...

@Pier

Sì, Pier, un'intervista avvenuta 3 anni fa, che per la profondità del contenuto, sarà sempre attuale nel suo valore...
A presto, ciao!

sonia ha detto...

Oserei chiamare mariane con un solo appellativo: Donna, grande Donna!

Ciao Dan, un abbraccio.

tobiko ha detto...

grande donna bell'intervista..
un bacio

danDapit ha detto...

@Sonia
Ciao Sonietta... Sì, Mariane è una donna dal grande coraggio di...vivere e lottare!
Un bacione!

@Incantevolecreamy
Ciao Incantevol!! Da quanto tempo!
...Tornando a Mariane e alla sua storia, non posso che ripetere di nuovo e ancora e sempre, che ha un grande cuore, e il cuore così grande significa CORAGGIO!
Un bacio a te!

ventodiprimavera ha detto...

Hei....ma perche' non ci si sente piu'?

Laura & Marzia ha detto...

Il mio piccolo commento è: questa donna ci segna, ci insegna e ci ricorda che dentro di noi c'è la forza più potente che si possa cercare fuori! Grazie Dani per avermi inviato il link al tuo blog e.. Nam Mioho Renge Kyo, nel cuore, nelle più profonde intimità delle melodie infinite senza passato nè futuro calcolabili!
Laura

danDapit ha detto...

@Laura
Un grande bacio!
Grazie per aver lasciato il tuo segno, sono felice che tu sia venuta e che la storia di questa donna ti abbia potuto donare ancora qualcosa...
A presto presto!