29 marzo 2007

i confini che non esistono


"Big Fish"

è la storia di un uomo che raccontava d'aver incontrato personaggi e situazioni incredibili nella sua vita.
Invenzione o realtà?

Mi chiedo se è più importante attraverso il sogno dar felicità, o invece essere rigorosamente avvinghiati alla realtà, cruda, ma giusta.
(Giusta? ...ehm...)

Il sogno, la favola, il racconto, l'immaginazione: per spaziare e trovare luoghi improbabili ma senza confini nè limiti, dove volare ad ali spiegate.
Per questo sarò un'eterna bambina! E chi mi vuole afferrare per i piedi e tirar giù, riceverà calci su quelle mani che cercano d'acchiapparmi! E per esser certa di sfuggire, incollerita dalla prigionia, tirerò anche nuvole impregnate di pioggia!
Nuvole dall'alto, che diverranno, nel lancio, pesanti e dure come sassi!
Voglio giocare e volare! Chi è capace salga sull'ottovolante, chi ha paura resti a terra!
Invenzione o realtà?
Poesia o quotidiano?
E chi dice che poi nell'immaginario non ci sia anche una parte di realtà?

Ho trovato una notizia, ieri, 28 marzo.
L'ho trovata su internet, forse molti l'hanno letta.
Così vengo a conoscenza di qualcosa che ha dell'incredibile, e mi colpisce nel suo essere un fatto reale di vita concreta!
Spesso mi è capitato di pensare che ciò che immaginiamo e reputiamo impossibile, magari da qualche parte del mondo invece esista veramente!
Una delle prime cose a cui la mia mente si è collegata è stata la fantastica storia raccontata in "Big Fish"!
Pian piano si sono susseguite riflessioni, ed altre immaginazioni ed associazioni in libertà che mi facevano sorridere...

Ecco l'articolo e la notizia copiate da "Yahoo! Notizie":

Reuters, 28 marzo

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PECHINO (Reuters) - L'uomo più alto al mondo, che ha cercato una donna da sposare in tutto il pianeta, ha finito per sposare una donna proveniente dalla sua città natale, alta la metà e con la metà degli anni di lui.

Lo riferiscono oggi i media cinesi.

Bao Xishun, 56 anni, un gigante di 2,36 metri classificato nel Guinness dei Primati come il più alto uomo in vita, ha sposato una commessa cinese di 29 anni, secondo quanto riferito da Beijing News.

"Dopo aver inviato messaggi di richiesta di matrimonio in tutto il mondo e dopo interminabili selezioni, finalmente i nostri sforzi sono stati ripagati", scrive il giornale.

Sua moglie, Xia Shujuan, alta appena 1,68 metri, viene da Chifeng, nella Mongolia continentale, proprio come Bao.

Il gigante ha raggiunto l'altezza che lo rende speciale nel corso della fase di crescita, iniziata nel periodo adolescenziale e durata sette anni . Secondo il Guinness dei record i medici non sono mai riusciti a spiegare il fenomeno.

Dopo una carriera nell'esercito, dove è stato scelto per far parte di una squadra di basket, è tornato nel suo Paese d'origine. Quando non si occupa del bestiame, Bao utilizza il suo fisico anomalo per offrire dimostrazioni pubbliche spettacolari.

A dicembre Bao ha salvato la vita a due delfini che stavano per morire in un acquario a Fushun, una città del nordest della Cina, infilando le sue braccia da gigante negli stomaci degli animali per estrarre dei pezzi di plastica, secondo quanto riportato dai media cinesi.
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L'ultima notizia riportata nell'articolo è VERAMENTE da "Big Fish"!

L'immaginazione spazia, e leggendo tale realtà mi sembra "sul serio" che non ci sia confine di impossibilità! Sempre più sono convinta che sia la mente umana a creare limiti, che esistono solo dentro la nostra testa!

Ho sorriso pensando che io sono alta 1,60, e accanto all'uomo più alto del mondo sarei ancora più bassa della sua mogliettina proveniente dalla Mongolia!
E poi ho pensato, sempre sorridendo, che i popoli asiatici, a differenza dei nordeuropei, sono tendenzialmente di bassa statura...
Non è REALMENTE un'ironia della sorte che l'UOMO PIU' ALTO DEL MONDO sia cinese?

Ora salgo sul tappeto volante e mi faccio un giro!
Ciao Ciao!


21 marzo 2007

da "Parole per sè" a "Presenza d'assenza"


è un'dea di Assu
(Il Cassetto delle idee libere).
A quest'idea ho partecipato
lasciando traccia con le mie parole,
ora fermate nello spazio di un post.
Bella l'iniziativa ed il pensiero di Assu,
ed importante conoscerne le radici,
così come lei stessa le spiega:


L’idea di "Parole per sé" si è fatta spazio nelle mie notti insonni, alla ricerca di risposte a domande ataviche che forse non verranno mai e rischiano di perdersi nell’obsolescenza dei modi di intendere la vita, in quel retrogusto di stantio che non è apprezzabile nel vino ma dovrebbe farci quantomeno riflettere sulla faticaccia quotidiana nello stare al mondo, e nel tentativo di mettere su, uno ad uno, i mattoni della nostra esistenza.

Scrivere per parlarsi, per instaurare un dialogo con sé, implica guardarsi indietro, cercare la radice dei propri pensieri e dei propri atteggiamenti. Partire da sé, dalla conoscenza del proprio io, senza piedistalli su cui appoggiarlo, ma semplicemente un letto comodo e un guanciale in cui affondare, con la serenità della notte che ci avvolge col suo buio e non ci lascia vedere oltre quello che c’è in noi, senza consensi e dissensi che vengano dall’esterno, senza altra letteratura da cui attingere copiaincolla di emozioni.

"Parole per sé" è un invito a scrivere un pezzo della propria vita e a condividerlo insieme, qui. Un ricordo, un momento, un incontro che hanno fatto riflettere e indotto un cambiamento, una consapevolezza. Vita comune che si fa racconto e si percepisce nella sua unica dimensione di tempo presente.

"Parole per sé" non ha la pretesa di essere un concorso letterario perché non ci sono premi da vincere, non ci sono scrittori e critici che esprimeranno pareri e commenti, non ci sono promesse di patinatura. C’è – e non è poco – l’auspicio di un viaggio attraverso la conoscenza di sé, con la certezza che le parole per sé non sono mai parole perse.


Le parole lasciate da me sono in:
"Presenza d'assenza".

Da Setalend a Parole per sé,
invitando chi desidera a partecipare!

09 marzo 2007

"Per cambiare l’odio io comincio da me" - Intervista a Mariane Pearl

Come omaggio al coraggio delle donne, in coda ad un 8 marzo appena trascorso, posto un'intervista alla giornalista regista Mariane Pearl, condotta e scritta da Monica Piccini nel 2004, e pubblicata sulla rivista bimestrale "Buddismo e Società" (n.103 marzo aprile 2004), da cui l'ho tratta.
Data la sua lunghezza non la riporto integralmente, ma le parti tagliate sono minime.

Scrive Monica Piccini:


"Mariane Pearl è la vedova del giornalista del Wall Street Journal decapitato dagli integralisti islamici nel gennaio 2002 in Pakistan. Pratica il Buddismo da circa venti anni. Due anni fa, al momento del sequestro del marito, rivolse un appello in mondovisione ai rapitori in un tono così pacato da attirare l’attenzione di molti. Quella tragica esperienza è raccontata in prima persona in un libro:
"Un cuore grande" (Sonzogno editore, pp. 319, 17 euro).

Il racconto prende le mosse dal pomeriggio del 23 gennaio 2002 quando, davanti al ristorante Village Garden di Karachi, Daniel Pearl sale su un’auto che dovrebbe portarlo a incontrare Mubarak Ali Shah Gilani, capo di un gruppo islamico iscritto dall’FBI nella lista delle organizzazioni terroristiche.
Pearl sta indagando sull’ispiratore di Richard Reid, l’uomo che voleva farsi saltare sul volo di linea Parigi-Miami con le scarpe imbottite d’esplosivo.
La sera stessa Mariane, incinta di cinque mesi, l’aspetta per cena a casa di amici.
Danny non arriverà mai.
Viene invece condotto in una casa colonica in un sobborgo della capitale pakistana, dove sarà tenuto prigioniero otto giorni.
Il 31 gennaio gli integralisti islamici lo decapiteranno.
Un video con le sue ultime parole («Mio padre è ebreo, mia madre è ebrea, io sono ebreo») e i dettagli dell’esecuzione verrà recapitato al consolato americano di Karachi il 22 febbraio.
Quasi tre mesi dopo, il 17 maggio, il suo corpo mutilato in dieci pezzi sarà ritrovato sotto un metro di terra.
A fine maggio Mariane mette al mondo Adam, un nome importante, il nome del primo uomo sulla terra per il bambino che secondo suo padre avrebbe contribuito a far sì che «durante la sua vita ci fossero più persone pronte a dare la vita per la pace che non per l’odio nel loro cuore».

Mariane, praticante buddista da vent’anni, nei giorni che seguono il rapimento del marito dà il via a un’operazione di antiterrorismo vera e propria cui partecipano la polizia pakistana, i servizi segreti americani e le forze diplomatiche di entrambi i paesi. Una convivenza forzata che ha cambiato profondamente la vita di tutte le persone chiamate in causa, a cominciare dal Capitano, il poliziotto pakistano – musulmano osservante – che all’inizio delle indagini aveva assicurato di portare a casa Daniel sano e salvo e che per primo invece dà a Mariane la notizia del terribile verdetto."


-L'intervista-


Com’è la tua vita adesso, a due anni di distanza dalla morte di Daniel?

La situazione è ancora surreale. Le cose non hanno ancora ripreso un andamento normale. Ho perso la nozione, non tanto della normalità, quanto della continuità, perché la mia vita negli ultimi dieci anni è cambiata molte volte e sempre in maniera radicale. Al momento la mia vita consiste soprattutto nel parlare di questo libro, uscito in diciotto differenti paesi, tra cui il Giappone, e di argomenti inerenti alla vicenda di mio marito. Cerco di comunicare il più possibile la sua convinzione che per cambiare l’odio nei cuori delle persone bisogna cominciare da se stessi, e nel caso di un giornalista, nel dar voce alle persone oppresse. Parlo molto con la stampa, a volte scrivo anch’io articoli (Mariane, anch’essa giornalista, è una pluripremiata regista di documentari) e poi cerco anche di costruire una vita stabile per mio figlio Adam. Finora abbiamo viaggiato molto. Da qualche mese abitiamo a New York, perché gli Stati Uniti per me in questo momento rappresentano il futuro, anche professionale.

Qual è per te il messaggio più importante di questa terribile vicenda?

La cosa essenziale è la responsabilità individuale, rendersi conto che ognuno di noi ha uguale responsabilità nel contribuire all’evoluzione della società, in particolar modo nell’ambito di questi nuovi conflitti, tutt’altro che risolti. Sono guerre destabilizzanti per l’intera pace mondiale, perché non hanno niente a che fare con le guerre tradizionali e per come le abbiamo conosciute finora. Ormai si è rivelata falsa anche la sicurezza di cui abbiamo goduto per tanti anni in Europa, convinti che la guerra fosse altrove. Adesso realizziamo che non è più così. Per quanto riguarda il terrorismo, per esempio, sappiamo che si sviluppa in occidente (Omar Sheik processato in primo grado per l’uccisione di Pearl è un inglese di buona famiglia, laureato alla London School of Economics, folgorato alla causa islamica dopo un viaggio in Bosnia). È un fenomeno multisfaccettato, che si avvale di molte cellule disseminate un po’ dovunque e, come al solito, le vittime di queste violenze sono persone normali. Scrivendo un libro su ognuno di loro chiunque si renderebbe conto di quanto la guerra è assurda. Non si parla di simboli, ma di persone. Per trovare una soluzione all’odio integralista esistono varie prospettive. È vero, la politica ha il suo compito, la repressione poliziesca ha il suo peso, però fondamentalmente si tratta di una riforma individuale. È necessario rieducare le persone, secondo un lavoro lungo e difficile. La vera posta in gioco adesso è il mantenimento del dialogo, l’unica risposta da dare ad Al Qaeda che fanaticamente vuole questo clash (scontro) tra le civiltà.

Come si esprimeva la responsabilità di Daniel nel suo lavoro?


Per lui il giornalismo era etica, etica pura. Era molto minuzioso, secondo lui bisognava fare sempre un miglio in più. Non l’ho mai visto fare compromessi con la verità, indipendentemente dal prezzo che ci fosse da pagare. Daniel era mosso da una profonda esigenza nei confronti di se stesso. A un certo momento, in quanto individuo, devi decidere come vuoi vivere, stabilire delle soglie entro le quali muoverti liberamente. Lui viveva in base a questa sua etica. Questa è la responsabilità individuale. Non è una questione solo di idee, è anche legata all’azione. La questione è essere all’altezza di questa visione nel quotidiano, indipendentemente dal mestiere che uno fa e dal paese in cui vive. Bisogna riuscire a capire fino a che punto un individuo lotta per essere quella persona che ha deciso di essere.

Chi è stato a uccidere Daniel?

L’esecutore materiale della sua morte si chiama Khalid Sheik Mohammed, un cittadino yemenita detto anche l’architetto di Al Qaeda. Una sorta di ingegnere del male, lo stesso che ha ideato l’attentato alle Torri Gemelle l’11 settembre.
Secondo la Casa Bianca, quando gli americani l’hanno catturato – non so se sia vero o meno – ha confessato di aver impugnato lui l’arma che ha ucciso Danny. Al Qaeda è una specie di assemblaggio temporaneo di alcune organizzazioni fondamentaliste, tenute insieme solo dalla disperazione. Le persone reclutate sono molto spesso prive di ogni formazione, non hanno speranza, sono completamente accecate dalla rabbia. E questo è il risultato della storia. In Pakistan e in Afghanistan si arruolano ad Al Qaeda i figli dei mujahiddin che in passato hanno combattuto prima i russi e poi gli americani. E tutti quanti trovano la loro collocazione in quest’organizzazione priva di ogni forma d’ideologia. Non esiste un programma, delle proposte, non c’è nulla, è distruzione allo stato puro.


Hai guardato negli occhi gli assassini?

No, al momento del processo di uno dei mandanti, Omar Sheik, ero ormai incinta di nove mesi. Ero a Parigi e non potevo più viaggiare.

Però confesso che ho esitato quando mi hanno riferito che lui voleva vedermi. Non so per dirmi cosa. Il problema era sapere se effettivamente mi volesse parlare e soprattutto se anch’io avessi voglia di parlargli. Per dirci cosa? Ho cercato di capire per quale motivo avrei voluto vederlo. L’unico motivo valido era fargli confessare che stava mentendo. Perché una persona che recluta dei giovani attraverso una promessa del tipo «se partecipi alla jihad andrai in paradiso» sta mentendo. Non ci crede neanche lui a ciò che va dicendo. Lo so perché, prima del processo, aveva il terrore di essere estradato negli Stati Uniti sapendo che sarebbe stato condannato a morte. All’idea di morire non ha certo pensato che ad accoglierlo ci sarebbe stato il paradiso. Eppure era ciò che raccontava agli altri. In Pakistan l’hanno condannato all’impiccagione, ma difficilmente eseguiranno la condanna.

Qual è per te il senso della morte di Danny, se c’è?

C’è un senso profondo, altrimenti sarebbe morto nell’anonimato. Posso dimostrarlo perché nelle lettere che ho ricevuto, e che lo riguardavano, la gente ha capito delle cose essenziali della propria vita, come per esempio a cosa dedicarla e perché conservarla. Quando Danny è morto io e migliaia di sconosciuti abbiamo deciso di spingere l’impegno ancora più a fondo. In questo senso è diventato un simbolo. È un po’ come se la sua morte avesse convalidato tutti i valori che aveva scelto durante la vita. Questo è importante e non è una banalità. Se ci si pensa bene, è raro morire per qualcosa, comunque. Quindi, indipendentemente dall’aspetto affettivo che ci lega, Danny ha coronato con successo la sua vita. Forse non avrebbe avuto lo stesso impatto sulle persone vivendo fino a novant’anni, non lo so. Il significato profondo della sua morte è l’influenza che ha esercitato su tutti. Questo non è avvenuto, ad esempio, per le vittime delle Torri Gemelle, anche se è esattamente lo stesso atto di violenza compiuto dagli stessi fanatici. La sua morte forse è riuscita a dare un volto umano al conflitto che viviamo. Perché molte persone hanno capito che tutti possiamo essere coinvolti, Daniel poteva essere loro figlio, padre, marito. È diventato un membro della loro famiglia. Ecco a cosa è servito. Una specie di esempio di uomo universale.

Quando dici che è morto indomito intendi questo?

Ci sono vari motivi per cui lo dico. Da un lato è stata una persona a cui hanno legato realmente le mani (in una delle foto divulgate dai sequestratori ha entrambe le mani incatenate ed è vestito con una tuta bicolore, di quelle che non avrebbe mai indossato), e che pur non potendo più parlare né scrivere, è riuscita comunque a comunicare su scala mondiale chi era veramente. Se in qualche modo avesse ceduto a ciò che gli imponevano i suoi carcerieri, non avrebbe avuto lo stesso impatto sulle persone. All’ultimo momento è stata evidente la vittoria della sua mente su quella dei suoi assassini. Il secondo motivo per cui lo dico è per via della dichiarazione che Danny ha rilasciato nel video prima di essere decapitato. Svela un dettaglio (dice che in una città israeliana c’è una strada che porta il nome di un suo avo) che nessuno poteva sapere, e che equivale a dire: «Ecco io sono quello che sono, andate al diavolo».

Una sorta di messaggio cifrato per la sua famiglia, la sola che avrebbe capito, per farci sapere come, persino davanti alla morte imminente, non aveva rinnegato se stesso. In quei giorni Danny ha fatto di tutto per comunicare il suo spirito indomito: dalla foto, con il dito medio alzato, a quando, a capo chino con la pistola piantata alla tempia, sorride. Il terzo motivo per cui lo dico è per me stessa. Perché non sarei riuscita a risalire la china se lui non avesse avuto quest’atteggiamento fino alla fine.

Perché?

Siamo stati sempre molto vicini, anche in quest’esperienza. E se avessi capito che non era stato in grado di resistere spiritualmente, che qualcuno aveva avuto la meglio sul suo spirito, non avrei reagito così come sto facendo oggi.


Qual è stata per te la lezione più difficile da imparare?

Inizialmente tutte le energie mi servivano per trovare Danny. Ero un po’ come un poliziotto. Per far questo però dovevo essere in grado di controllare la paura. Sapevo che l’unica cosa che queste persone volevano provocare in me era il panico. Quindi mi sono messa nella condizione mentale di difendermi, allo stesso modo di Danny. Se qualcuno ti punta una pistola in faccia e ti rapisce, la prima cosa che ti viene in mente, appunto, è come non perdere la calma. Dal canto mio sapevo che se cominciavo a farmi prendere dall’angoscia anche lui, e le persone intorno a me, si sarebbero fatte soggiogare dalla paura. Poiché io non mi facevo sopraffare dall’angoscia tutti gli altri continuavano ad agire. Poi, quando ho saputo che era morto, non ho avuto più paura. Ero arrivata in un punto in cui non avevo più paura. Paura di che cosa? Se lo sai non hai più paura.


Come hai fatto a gestire la paura?

Bisogna cercare di calarsi nel contesto quando si fa una lotta del genere, in cui non si dorme, si mangia a stento e si ha un solo obiettivo: ritrovare chi è stato rapito. Per cinque settimane non abbiamo fatto altro che cercarlo. La paura ti viene quando non agisci, mentre io, mettendo in campo tutte le mie forze, stavo guardando in faccia la realtà. Quando arrivi in fondo a una situazione, per quanto terribile, niente ti fa più paura. Danny era immobile fisicamente però anche lui – ne sono convinta – dedicava tutta la sua energia a non farsi prendere dal panico. La paura è una specie di bestia selvatica che può essere addomesticata. Non è un’emozione assoluta che non può essere vissuta diversamente. Nella sfida il terrore spariva. Se pensi: «Forse mi attaccheranno, oppure non mi attaccheranno, boh», allora lì si può aver paura. Però una volta che hai di fronte il nemico allora si fa come fa Danny, li si manda al diavolo. Mi rendo conto che è difficile da spiegare…


Hai recitato Daimoku in quei momenti?


Durante le prime due settimane lavoravamo ininterrottamente notte e giorno, però dopo l’arresto di Omar Sheik la situazione si è fatta molto più difficile, perché lui continuava a contraddirsi. Diceva che Danny era vivo, e dopo poco che in realtà era già morto. Lì ho recitato Daimoku molto di più. L’ho fatto per salvarlo, certo. Però ero già arrivata a un punto di consapevolezza abbastanza estremo. Non sapevo se Danny sarebbe morto o si sarebbe salvato. A quel punto della battaglia la cosa più importante era: «Non ci prenderanno», nel senso di «non ci domeranno». Io sapevo che se avessi avuto paura della morte quello sarebbe stato il mio limite, e quindi dovevo superarlo. La cosa più importante era diventata questa sfida nei confronti di chi voleva uccidere Danny per distruggere il suo modo di pensare. È un po’ come quando ti trovi di fronte a delle persone che ti vogliono ammazzare a causa di quello che realmente sei. In quel momento la cosa più importante diventa: «Difendo quello che sono» e non tanto: «Farò di tutto per cercar di vivere». Mi rendo conto che è una situazione abbastanza estrema, che travalica una qualsiasi esperienza di normalità.

Per quale motivo hai cominciato a praticare il Buddismo di Nichiren Daishonin?

«Perché no?», mi domandai quando vent’anni fa, ormai, presi parte a una riunione di buddisti a Parigi, la città dove sono cresciuta. Rimasi colpita nel vedere la diversità delle persone che erano lì riunite. Mi chiesi quale fosse il denominatore comune tra persone così diverse e ciò che mi colpì di più era che quelle persone non volevano assolutamente assomigliarsi. Erano completamente diverse, ma il Buddismo sembrava funzionare ugualmente per tutti. Avevo diciassette anni. Qualche tempo prima avevo messo il giubbotto di mio fratello e avevo trovato in tasca il libretto di Gongyo dicendomi: «Oddio appartiene a una setta». Mi ero presa anche paura e così decisi di andare a una riunione della Soka Gakkai. Ho iniziato così.


Ti è stato utile praticare il Buddismo in questa vicenda?

Assolutamente sì. È stato anche un vero termometro, perché ho sempre fatto affidamento sul Buddismo da quando lo pratico. Però tre anni fa non sarei stata in grado di dire se questa pratica mi avrebbe consentito di attraversare un’esperienza così estrema. Oggi l’ho verificato e sono totalmente convinta che recitando Nam-myoho-renge-kyo non ci sono ostacoli che non si possano superare.


Pensi che le persone che incontri capiscano il tuo messaggio?

Molti sì. Altri, quelli che non vogliono sentire, no. Ma non importa, ci sarà sempre qualcuno che è pronto per questo tipo di messaggio. Però mi sembra incredibile come molte persone che hanno dei figli possano non interrogarsi su questioni del genere. Non mi sembra che quello che dico sia incomprensibile, per lo meno spero.

Come hai superato la mancanza di Danny?

Come qualsiasi lutto. Non è facile. La sua assenza è difficile e crudele. Ma è il prezzo da pagare. È il senso dell’obiettivo superiore rispetto all’elemento emotivo. Quando faccio delle cose che hanno un significato profondo so che vanno a vantaggio anche di Daniel. Quando invece permetto che le emozioni mi sommergano sento di prendere una strada senza via d’uscita. È normale, quando sei triste lo esprimi, ma poi ti rialzi e vai avanti. Con l’arrivo della morte non puoi più far nulla, non puoi più agire. Questa è la differenza tra la vita e la morte. Finché sei vivo devi fare quante più cose possibili perché la vita ha un termine. L’esistenza è come un grande libro in cui ognuno di noi ha una pagina da riempire, con un inizio e una fine. Se non hai voglia di scrivere nulla non scrivi nulla, però un bel giorno non potrai più farlo. Dipende da te. Questa è la crudeltà dell’esistenza. Finché si è vivi bisogna fare delle cose, e possibilmente non solo per se stessi. Perché se scrivi solo per te, e gli altri fanno lo stesso, la tua pagina non avrà nessun interesse per gli altri e non contribuirà al romanzo nel suo complesso. Adesso Danny non può più fare nulla. Se non agisco io che senso ha essere una coppia?



08 marzo 2007

Otto Marzo MillenoventoOtto


8 marzo 1908
New York
in un incendio all'interno di una fabbrica
a cui il padrone aveva sprangato le uscite.

Murales ad Orgosolo (marzo/aprile 1978)

06 marzo 2007

RiSPosTa ai CoMMenTi su °° LA RUOTA E IL FRENO "COINCIDONO" °°


Mi ero accinta a rispondere ai commenti sul post de "La ruota e il freno coincidono" sull'apposita pagina (comment page), quando mi sono resa conto che la scrittura diventava corposa, articolata e lunga... Da qui la decisione di trasformare la risposta in un Post, per prendere agevolmente più spazio, e sviluppare la tematica che ne è scaturita.
Le interpretazione sono varie e in ciascuna sento di rispecchiarmi, e da ciascuna ho preso per me qualcosa! Così, per rispondere alle varie interpretazioni, farò un collage dei vostri commenti agganciandomi a ciascuno, e creando nell'insieme un tessuto patchwork che, intrecciando Ruota e Maschera, crea nel suo complesso un nuova strada, altrettanto affascinante!

Da CasaRussia prendo:
”Ognuno di noi è qualcosa di unico e irripetibile e di conseguenza di incomprensibile a qualsiasi essere esistente in quella che è la nostra totalità. La nostra trasparenza a volte non è tale neanche a noi stessi figuriamoci al prossimo. Il prossimo avrà sempre una vaga idea di quello che abbiamo dentro ma questa non sarà mai completa, resterà sempre leggermente torbida. E non per un difetto di qualcuno ma semplicemente perchè va al di là della comprensione umana."


Sono molto d’accordo! E devo dire che, dopo aver pubblicato il post, ho avuto un’illuminazione sul significato di questa frase, che si avvicina a tratti, e a volte coincide, alle riflessioni raccolte dai commenti.
Come dice Grig: La nostra trasparenza a volte non è tale neanche a noi stessi figuriamoci al prossimo. Il prossimo avrà sempre una vaga idea di quello che abbiamo dentro ma questa non sarà mai completa”,
sì, e non può esserlo! Siamo persone in eterno mutamento…come una ruota che lentamente gira, come la vita che va sempre avanti… E' difficile afferrarci da dentro, e chi è fuori può cogliere un piccolo aspetto di noi, ma mai nella profondità completa.

E mi riallaccio all’ANONIMO che ha detto:
a me piace la foto in cui sei semi nascosta dalla foglia secca...sembra che quella foglia stia li' apposta per celare, o meglio, per difendere ...

Questo è vero di me. Non penso però sia solo una MIA verità!
C’è una verità nel fatto che ciò che ci poniamo “davanti” serva a difendere… Velo, filtro, foglia o maschera?, per difendere una parte di noi che, percepita fragile, se viene esposta, vediamo in pericolo…
Ma volte non è neppure per “fragilità” che difendiamo; piuttosto -invece- perché sentiamo che è giusto non svelare tutto di noi! Ciò non equivale -però- all'adottare maschere!

E da Pier prendo:
“Decisamente direi che non dai interpretazioni superficiali, in quello che scrivi e pensi, e quindi in sostanza in come vivi. Mi sembra che osservi attentamente le cose che ti circondano e come dici tu stessa hai la vocazione ad allargare le tue conoscenze e i tuoi confini.
…La frase in questione credo spieghi il destino di uno spirito profondo, in continuo conflitto con sè stesso e alla ricerca di cose che spiriti superficiali non immaginano... e quindi sembra diverso, sembra indossare una maschera dai lineamenti indefinibili, che possono spaventare. Per questo, paradossalmente, lo spirito superficiale e sensibile è costretto a portare una maschera per potersi far riconoscere...”

Sì, a volte finisce che una spirito troppo sensibile si ponga una maschera davanti, un filtro, un velo, una foglia? Però, andando a scavare, non è una maschera che utilizza unicamente per gli altri, probabilmente è una maschera che, nella fragilità, lascia emergere anche per se stesso… Per poi, riflettendosi sugli altri, comprenderlo e quindi passare nuovamente allo smascheramento.
Uguale al processo della ruota che gira e poi si arresta; uguale alla vita che va tra espansione e contrazione, tra dinamica e blocco, tra maschera e smascheramento.

E tutto ciò, giungendo ad un traguardo di percorso, mi ha donato una visione aggiunta, capendo che molte volte mi sono ritrovata addosso maschere affibbiate dagli altri.
E questo penso accada a tutti!
Maschere adattate al nostro viso, ovvero “proiezioni” da parte di chi ci è di fronte: a seconda di come ci vive in base alla propria indole, o limiti, o paure. C’è chi mi ha odiato per questo. C'è chi è convinto che sia una "falsa".
Buffo per una che desidera essere una "pura"! O forse è giusto così!

Perciò mi rendo conto che essere integralmente me stessa non significa non avere maschere per gli altri!

E quindi arrivo a Lucia:
“Come ruota non indosso maschere. A volte lucido i raggi o cambio il copertone che avvolge la camera d'aria, ma non potrei nascondere la mia forma a disco.
"Ogni uomo mente - diceva Oscar Wilde - ma dategli una maschera e sarà se stesso".
E allora penso che per continuare a essere ruota, forse farei meglio a mascherarmi da freno.”

Rispondendo ad Oscar Wilde: No, non voglio una maschera per essere me stessa.
Però, tornando alla riflessione di Grig, non sarò mai vista come realmente sono, e io stessa continuerò a stupirmi nello scoprire cose di me in netto contrasto con ciò che tempo addietro opinavo, quasi a smentirmi, o a dover pensare di me di essere stata bugiarda e ambigua nel mio intimo! Sì, d'aver indossato una maschera nella mia anima!


E ancora, da Daniela:

Ultimamente mi viene da pensare che se è vero che tutti portiamo delle maschere, è anche vero che ce le scegliamo con un certo criterio... così che spesso dalla maschera si può evincere quel che sta sotto.”

Una maschera che si adatta al viso, che ne prende le forme, che corrisponde all’anima, che lascia trasparire, per poi annebbiare…
Da tutto questo comprendo che dentro, nel profondo, siamo poliedrici, e nel cercare una coerenza con noi stessi, una sincerità e verità, nel ricercare di essere se stessi, la maschera non è qualcosa di vile, bensì una metamorfosi naturale che a volte ci copre come il momento in cui il bruco deve divenire farfalla…
L’importante è non cercare la maschera, ma passarci attraverso…!

Rispondendo a K:


A dire il vero Giuliana aveva avuto un’iniziativa carina per quel Natale, e sulla tavola aveva posto una ciotola con dei biglietti da pescare a sorte. Ogni biglietto conteneva una citazione di vari autori. A me capitò quella di Nietzsche. Non erano segnaposti già preparati in stile commerciale… E l’idea creava un diversivo per alleggerire l’atmosfera di un pranzo natalizio tradizionale, che a volte ha anche sapore amaro e forzato…
E' pur vero che Nietzsche non sia interamente apprezzabile, come è vero che fosse un narcisista che ha lavorato per creare una maschera intorno a sè, però nel caso del Natale a casa di Giuliana, non c'era la ricerca d'un mito tra i biglietti e i segnaposti!
E caro il mio "Che", finito sulle magliette! Non penso fosse un suo obbiettivo! Ma quando viene creato un mito… Le immagini vanno a ruba!
(Quella nella foto sono io, al di sotto di un'immagine del "Che" in una casa dell'entroterra sardo, prestata da amici sardi)

Seguendo le parole di Assu:
Neppure a me piace l’idea di adottare una maschera! A tal motivo ho lasciato il post con una domanda aperta…

Vivo cercando di essere me stessa, e cercando la sincerità dentro e fuori.
Eppure attraverso lo scambio qui avvenuto ho compreso che “una sorta di maschera” esiste sempre! Non perché la cerchiamo, ma perché è sufficiente omettere solamente un piccolo particolare nel parlare di noi, che già può apparire che abbiamo voluto nascondere.
Non basta forse, affermando un giorno una cosa e il giorno dopo inseguendo un pensiero trovarsi ad affermare il contrario, per sembrare già falsi e contraddittori?
Eppure siamo sinceri! Anzi, senza badare a cosa pensino "gli altri" siamo proprio noi stessi!
Ed è questo che ci fa apparire allora falsi, contraddittori, maschere opportuniste!
Assu tu hai affermato:
”Sono profondamente persuasa della necessità di liberarci delle tante maschere e conoscere e far conoscere la nostra unica faccia."
E a questo, riflettendo, rispondo: Non so se possiamo dire di avere un'unica faccia… Ecco, forse più siamo complessi nella nostra interiorità, e meno unica è la nostra faccia…!

Riprendo la frase di Sonia:
"Siamo solo noi gli artefici della nostra vita, e lo diventiamo soprattutto se impariamo a non mettere i freni nella nostra vita. "
Sì, sono d'accordo, molto d'accordo! Siamo gli artefici quando non abbiamo paura a vivere, quando non mettiamo limiti, quando, anche se abbiamo paura, sappiamo tirare fuori il coraggio di andare senza usare il freno.

Per mia esperienza: i freni spuntano come funghi, se li mettiamo anche da noi,
quando andiamo avanti? Quando progrediamo?

Ritorno alla voce di Lucia:
"Spesso sono ruota, raramente freno. Conosco il dolore di cui parla Nietzsche ma la voglia di "divorare la vita", a volte, me lo fa ignorare. [...] Come ruota non indosso maschere"...
Mi chiedo: "Può una Ruota indossare Maschere?"
Chi è impegnato a girare, a divorare la vita e la strada, ha tempo per indossare maschere?

Come in un canestro intreccio giunghi. La Ruota si fa Maschera senza volerlo, forse solo per girare e poter essere se stessa, per vivere senza fermarsi, per celare il dolore dato dal freno, per trasformarsi da crisalide in farfalla...

...Come infatti conclude Lucia:
"E allora penso che per continuare a essere ruota, forse farei meglio a mascherarmi da freno."

Chiuderò il post prendendo in prestito nuovamente le parole di Lucia:
"La ruota abile e ben allenata conosce il pericolo della strada e può viaggiare anche senza freno. Mentre il freno, senza il girare della ruota, sarebbe solo e annoiato."

...Rido!
Scherzando o sul serio: il destino dei Freni, non è quello di cercare le Ruote? ...Per poi dover indossare delle Maschere!!

Grazie a tutti e ...Buone pedalate!


05 marzo 2007

ATTENZIONE!!


Richiamo l'attenzione su un'iniziativa di Morgan- "Acme del Pensiero" in favore di Benito, persona che necessita di aiuti.

Morgan si occupa della cruda realtà di chi vive senza tetto, e attraverso il suo blog -
"Acme del Pensiero"- promuove iniziative indirizzate a sostenere persone che necessitano di aiuti concreti, cercando anche di sensibilizzare chi si trovi a leggere su tali realtà spesso ignorate.

In questi giorni sta avvenendo una piccola/grande mobilitazione per aiutare Benito n

8Mobilitazione promossa da Morgan, che invita a partecipare sia nella diffusione dell'iniziativa, sia con aiuti concreti.

Il presente post è dedicato a tale avviso, invitando tutti a leggere direttamente le parole di Morgan e la storia di Benito, e anche i primi risultati tangibili e belli sviluppatisi da tale iniziativa.


Grazie!