12 agosto 2009

Vite che lottano in un paese in cui calunnie e falsità costruiscono imperi: "devastante attività di disinformazione promossa dai poteri criminali"

CULTURA

Saviano: "La verità è che ora odio gomorra"
"Se vedo il libro in vetrina guardo da un'altra parte"

di SIMONETTA FIORI

Il racconto dell'autore in un articolo scritto per "The Times"


"I hate Gomorra, I abhor it". Odio Gomorra, lo detesto con tutto il cuore. Roberto Saviano ha scelto un giornale inglese per confessare una verità semplice, ma finora indicibile: lo scrittore odia il suo capolavoro, liquidato come "libro maledetto", "eterna spina nel fianco". Gomorra l'ha condannato all'esilio, a un'esistenza spezzata, spogliata di affetti e di libertà, della meravigliosa routine quotidiana, del mare e della neve, di una casa normale, di una pizza la sera con gli amici. Una "vita di merda", scrive Saviano. Un sentimento legittimo - quello espresso dallo scrittore da tre anni costretto a muoversi sotto scorta - ma finora sottaciuto per non deludere le pletore di adoratori, alla ricerca di martiri ed eroi. "Ora sono maturi i tempi", scrive sul Times, "e rivendico il diritto di rivelare il mio rimpianto, pensando con nostalgia a quando ero un uomo libero". Io odio Gomorra.

E' la prima volta che Saviano si lascia andare con tale amarezza su quel suo libro che gli ha procurato fama e successo (traduzioni in quaranta paesi), ma anche una esistenza d'inferno. I due milioni di copie vendute? "C'è poco da festeggiare". Sottile la descrizione della macchina mediatica, ansiosa nella ricerca di eroi, ma non sempre compatta nel difenderli.

E' anche per non deludere i suoi lettori, gli zelanti intervistatori che gli domandano "Ti sei pentito d'averlo scritto?", che Saviano finora se l'è cavata con una risposta ambivalente. "Mi sono pentito come uomo, non certo come scrittore", ama ripetere nei suoi incontri pubblici. "Rispondo in questo modo per dimostrare che mi è rimasto un brandello di responsabilità civile", ci spiega ora dalle colonne del Times. Ma la verità è un'altra. "Quando passo davanti a una libreria e vedo Gomorra in vetrina, mi volto da un'altra parte". Odio e basta.

Questo Saviano finora non l'ha potuto dire, per timore di un rifiuto, di "facce mortificate e colme di disappunto". Lo scrittore sentiva il dovere di difendere l'immagine del combattente granitico, capace di "sopportare il sacrificio in silenzio", pronto nonostante tutto a riscrivere mille volte quel suo "dannato" capolavoro. Invece la verità è più semplice, quella di un ragazzo non ancora trentenne che aspira a una vita normale, a guardare il mare o a provare l'ebbrezza di vagabondare senza meta. Ti sei pentito? La risposta è un secco sì. Se avesse saputo a cosa andava incontro, Saviano un libro come Gomorra non l'avrebbe mai scritto. "Ma rimane il fatto che l'ho scritto, e ora ne pago il prezzo per ogni giorno della mia vita".

Una vita in fuga, ogni minuto sotto sorveglianza, spesso in appartamenti bui, soffocanti, senza balconi né verande, il più delle volte relegati in periferia. Impensabile una collocazione in centro, con due automobili blindate e cinque uomini della scorta. "Da tre anni la mia casa è solo una valigia", scrive Saviano, "e una borsa con libri e computer". Unico sollievo, la solidarietà dei suoi lettori. E di scrittori perseguitati come Salman Rushdie, prodigo di suggerimenti su come difendersi dall'intolleranza di chi per paura non vuole condividere neppure un volo in aereo. "Chiama il giornale più importante di quella città e denuncia la compagnia aerea che ti respinge: subito saranno ai tuoi piedi". Consiglio seguito con successo.

Figlio di mamma meridionale, premurosa e soccorrevole come vuole tradizione, lo scrittore confessa i suoi esordi impacciati nelle faccende di casa, stiro e naturalmente cucina. Evoca con tenerezza una donna che a Napoli aveva preso l'abitudine di suonare alla sua porta per consegnargli pietanze prelibate, "del genere di quelle cucinate dalle madri per i figli soldati". Uova con parmigiano, costolette di agnello, talvolta mozzarella di buffala o dolci fatti in casa. "Soltanto guardare quei piatti mi faceva sentire a casa". Un incanto culinario bruscamente interrotto dall'ordine di partire per altra destinazione.

Severo è il giudizio sul paese in cui gli è toccato in sorte di nascere, "dove la verità ha cessato di esistere". Più della morte, Saviano teme la devastante attività di disinformazione promossa dai poteri criminali. In particolare dalla camorra, che è già all'opera per infangarne il nome, per insozzarne la credibilità e tutto quello per cui finora ha vissuto. Una campagna diffamatoria che ha già avuto le sue vittime in Peppino Diana, Federico Del Prete, Salvatore Nuvoletta. Una cascata di fango che rischia di ottundere anche gli organi di informazione. "Non appena la stampa nazionale ti mostra attenzione, cominciano a circolare sul tuo conto pettegolezzi e storie equivoche. Il fatto è che sei colpevole finché non dimostri il contrario. Allora i media si tirano indietro, come lumache nel loro guscio". Il suo incubo è questo, non una pallottola criminale: essere sporcato dalla camorra, non essere più capace di difendersi, "difendere soprattutto le mie parole".

(12 agosto 2009)
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Saviano: perché Pecorella infanga don Peppe Diana?
di ROBERTO SAVIANO
(1 agosto 2009)


MI è capitato nella vita di fare pochissimi giuramenti a me stesso. Uno di questi, che non riuscirei a tradire se non vergognandomi profondamente, è difendere la memoria di chi nella mia terra è morto per combattere i clan. Ho giurato a me stesso sulla tomba di Don Peppe Diana il giorno in cui alcuni cronisti locali, alcuni politici e diversa parte di quella che qualcuno chiama opinione pubblica iniziarono un lento e subdolo tentativo di delegittimarlo.

Il venticello classico di certe parti d'Italia che calunnia ogni cosa che la smaschera; il tentativo di salvare se stessi dalla scottante domanda "perché io non ho mai detto o fatto niente?". Ho letto in questi giorni sulla rivista Antimafia Duemila che due ragazzi, Dario Parazzoli e Alessandro Didoni, hanno chiesto durante una trasmissione Tv a Gaetano Pecorella come mai, quando era presidente della commissione giustizia, difendeva al contempo il boss casalese egemone in Spagna Nunzio De Falco, poi condannato come mandante dell'omicidio di Don Peppe Diana. Mi ha colpito e ferito sentire alcune dichiarazioni dell'Onorevole Pecorella in merito all'assassinio di Don Peppe Diana. In una intervista al giornalista Nello Trocchia per il sito Articolo 21, Pecorella dichiara: "Io dico che tra i moventi indicati, agli atti del processo, ce ne sono tra i più diversi. Nel processo qualcuno ha parlato di una vendetta per gelosia, altri hanno riferito che sarebbe stato ucciso perché si volevano deviare le indagini che erano in corso su un altro gruppo criminale. E altri hanno riferito anche il fatto che conservasse le armi del clan. Nessuno ha mai detto perché è avvenuto questo omicidio, visto che non c'erano precedenti per ricostruire i fatti. Se uno conosce le carte del processo, conosce che ci sono indicate da diverse fonti, diversi moventi".

Proprio leggendo le carte si evince chiaramente che non è così, Onorevole Pecorella. Perché dice questo? È vero esattamente il contrario. Dalle carte del processo emerge invece che è tutto chiaro. E pure la sentenza della Corte di Cassazione del 4 marzo 2004 conferma che Don Peppe è stato ucciso per il suo impegno antimafia e per nessun'altra ragione. Che De Falco (di cui lei, Onorevole, ha assunto la difesa) ha ordinato l'uccisione di Don Peppe per dimostrare, uccidendo un nemico in tonaca, un nemico senza armi, che il suo gruppo era più forte e coraggioso di quello di Sandokan. E anche per deviare la pressione dello Stato proprio sul clan Schiavone. Quelli che lei definisce più volte "moventi indicati" furono, come dimostrano le sentenze, delle calunnie che alcuni camorristi portarono per lungo tempo in sede processuale per discolparsi. Calunnie nate dal fatto che persino loro cercavano di lavarsi le mani, in buona o cattiva fede, del sangue innocente che avevano versato. Ne avevano vergogna. Questo è quel che dicono gli iter conclusi della giustizia italiana. Ed è per questo che la risposta che l'Onorevole Pecorella ha dato appena qualche giorno fa alla domanda se Don Diana, a suo avviso, non fosse stato ucciso per il suo impegno contro i clan lascia basiti.

L'onorevole dice: "Io non ho avvisi. Io riporto quello che è emerso nel processo e nulla più. Ci sono diversi moventi, c'è anche quello, che all'inizio non era emerso, che faceva attività anticamorra. Per la verità nel processo non è venuto fuori molto chiaro neanche questo come movente. È inutile che costruiamo delle fantasie sulle ipotesi. Quella dell'impegno anticamorra è tra le ipotesi. Ma nel processo non è emerso in modo clamoroso, non è mai venuta fuori un'attività di trascinamento, di gente in piazza. Non è che c'erano state manifestazioni pubbliche, documenti. Qualcuno ha detto anche questa ragione. Come vede ci sono tanti moventi. Certamente è stato ucciso dalla camorra. Chi viene ucciso dalla camorra è una vittima della camorra. Ora se è un martire bisogna capirlo dal movente che non è stato chiarito".

È stato chiarito. Lo Stato Italiano considera Don Peppe un martire della battaglia antimafia, migliaia di persone hanno sfilato in sua difesa. E i documenti che non ci sarebbero, ci sono eccome. Hanno non solo un nome, ma anche un titolo: "Per amore del mio popolo non tacerò". È il documento stilato da Don Peppe insieme ad altri preti della forania di Casal di Principe in cui viene annunciata una battaglia pacifica, ma priva di compromessi alle logiche dei clan, al loro predominio, alla loro mentalità, alla loro cultura, alla loro falsa aderenza alla fede cristiana. Persino Papa Giovanni Paolo II, dopo la morte di Don Peppino Diana, pronunciò nell'Angelus: "Voglia il signore far sì che il sacrificio di questo suo ministro [...] produca frutti [..]di solidarietà e di pace". Per Giovanni Paolo non ci furono dubbi, fu un martire. Per Lei, Onorevole Pecorella, invece ce ne sono. Perché, mi chiedo?

Le chiedo inoltre se considera legittimo rivestire il ruolo di Presidente della Commissione Giustizia del Parlamento Italiano e portare avanti la difesa del boss Nunzio De Falco? Lei immagino mi risponderà di sì, che anche il peggiore dei presunti criminali, ne ha il diritto. Ma questo principio di garanzia vale soltanto fino al verdetto finale. Tale verdetto di colpevolezza del suo mandante è stato emesso e confermato. Quindi la prego di non diffondere falsi dubbi sulla condanna a morte di Don Diana. Chi ha ucciso Don Peppe Diana è uno dei clan più potenti e feroci d'Italia che ha ancora due latitanti, Iovine e Zagaria, liberi di investire, costruire, e portare avanti i loro affari.

Oggi, Onorevole Pecorella, lei è presidente della commissione d'inchiesta sui rifiuti, e i Casalesi, come saprà, sono i maggiori affaristi nel traffico di rifiuti tossici e legali. Loro quindi dovrebbero essere i suoi maggiori nemici anche se in passato ha difeso in sedi processuali i loro capi. La prego di avere rispetto per Don Peppe e non dare nuovamente credito a calunnie che negli anni passati killer e mandanti hanno cercato di riversare su una loro vittima innocente. Questa mia domanda non è questione di destra o di sinistra. La legalità è la premessa del dibattito politico, o almeno dovrebbe esserlo. La premessa e non il risultato. Quando iniziai a trascrivere delle parole che Don Peppe aveva detto nel Casertano ho ricevuto lettere commosse da molti lettori conservatori, da cattolici di Comunione e Liberazione sino ai ragazzi della Comunità di Sant'Egidio, dalla comunità ebraica romana e da tante altre.

La battaglia alle organizzazioni criminali, l'ho vista fare da persone di ogni estrazione politica e sociale. Ho visto, quando ero bambino, manifestazioni nei paesi assediati dalla camorra in cui sfilavano insieme militanti missini, democristiani, comunisti e repubblicani. L'onestà non ha colore, spesso così come non ne ha l'illegalità. Per questo, il mio non è un appello che possa essere ascritto a una parte politica. Non permetterò mai a nessuno, e come dicevo me lo sono giurato, che la memoria di Don Peppe sia oltraggiata da accuse false, demolite dai Tribunali, che ebbero il solo scopo di screditare le sue parole, emettendo nel silenzio il ronzio malefico "quello che dice non è vero". Questo non lo permetterò. Lei mi dirà che questa mia è una battaglia troppo personale. Io le ribadirei che, sì, lo è, è vero. Tutto ciò che riguarda la mia terra, ormai riguarda la mia vita stessa e quindi non può che essere personale. Difendere la memoria di Don Peppe Diana è una questione personale anche per un'altra ragione: è una questione di onore. Onore è una parola che spesso hanno abusivamente monopolizzato le cosche facendola diventare sinonimo del loro codice mafioso. Ma è il tempo di sottrarla alle loro grammatiche. Onore è il sentire violata la propria dignità umana dinanzi a un'ingiustizia grave, è il seguire dei comportamenti indipendentemente dai vantaggi e dagli svantaggi, è agire per difendere ciò che merita di essere difeso. E io l'onore, l'ho imparato qui a Sud. Per meglio spiegarmi, mi sovvengono le parole di Faulkner: "Tu non puoi capirlo dovresti esserci nato. In realtà essere del Sud è una cosa complessa. Comporta un'eredità di grandezza e di miseria, di conflitti interiori e di fatalità, è un privilegio e una maledizione. Vi è il senso aristocratico dell'onore e dell'orgoglio". Mi piacerebbe poter mettere una parola definitiva su questo. Su quanto accaduto a don Peppe. Permettere di farlo riposare in pace. Riposare in pace significa non chiamarlo in causa laddove non può difendersi. A volte, come accade a molti miei compaesani per cui conserva il suo valore, mi viene di rivolgermi a lui. Don Peppe se è vero che tu hai visto la fine della guerra, perché, come dice Platone, solo i morti hanno visto la fine della guerra, sta a noi vivi il compito di continuare a combatterla. E non ci daremo pace.

(Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency)
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Lo scrittore dopo la polemica scatenata dal presidente della commissione ecomafie "Sarebbe bello che il paese proteggesse la sua memoria senza divisioni"

"L'Italia difenda don Diana"
"Scout, cattolici e tutti i partiti lo ricordino come nemico dei clan"


di ALBERTO CUSTODERO


ROMA - "Sarebbe bello se il Paese difendesse la memoria di don Diana, senza divisioni". Lo scrittore Roberto Saviano lanciando un appello interviene nella polemica divampata dopo che Gaetano Pecorella, presidente della commissione Ecomafie (ed ex legale, 12 anni fa, di Nunzio De Falco, condannato in Appello come mandante dell'omicidio del sacerdote), aveva messo in dubbio che il prete ucciso dalla camorra fosse un "martire". "Prima - aveva detto il deputato Pdl - va chiarito il movente del suo delitto".

Il religioso, sostiene lo scrittore, "è stato ucciso per il suo impegno contro i clan. Ribadirlo significa ribadire che l'Italia è sulle figure come quella di Don Peppe che fonda la fiducia nella possibilità di cambiamento e nel sogno di giustizia. Sarebbe bello che da destra a sinistra tutti si sentissero orgogliosi di essere italiani perché lo era don Peppe. Il suo ricordo e difesa prescindono dalle divisioni politiche. Sarebbe bello se scout, associazioni, e tutti i presenti durante la sua vita ricordassero quanto ha fatto. E cancellassero per sempre ogni ombra che da anni la camorra staglia sulla sua memoria".

Mentre Pecorella ritiene di essere "caduto in un tranello studiato a tavolino" perché "dà fastidio che la Commissione Ecomafie abbia denunciato il pericolo che nei prossimi anni il Lazio resti ingovernabile sotto il profilo dello smaltimento dei rifiuti", ad attaccare l'ex avvocato di Silvio Berlusconi è Sonia Alfano, Idv, presidente dell'Associazione vittime di mafia. "Quelle di Pecorella - dice - sono dichiarazioni disgustose con lo scopo d'infangare la memoria del pastore che osò sfidare la camorra a viso aperto".

Per il capogruppo pd all'Antimafia, Laura Garavini, "diffondere insinuazioni è una sporca strategia che conosciamo troppo bene da parte di certi personaggi. Se tutti fossero come don Diana, l'Italia sarebbe un altro Paese". Raffaele Cantone, ex pm della Dda di Napoli (fece condannare De Falco per aver ordinato l'omicidio del killer del fratello), apprezza "la generosità con la quale Saviano difende la memoria di don Diana, martire per aver dato una svolta alla chiesa campana nella lotta alla camorra". Non crede "che si possa equiparare l'avvocato con il cliente che difende".

Ritiene, Cantone, che "si può porre il problema di opportunità per l'avvocato che difende posizioni particolari quando assume cariche pubbliche di rilevante imparzialità". Piergiorgio Morosini, della giunta Anm, invita "alla massima prudenza quando un personaggio pubblico commenta omicidi di mafia perché certe dichiarazioni potrebbero nel mondo criminale delegittimare chi ha preso il testimone di don Diana". Getta acqua sul fuoco, infine, il Procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, per il quale la polemica Saviano-Pecorella su don Diana "è una tempesta in un bicchiere d'acqua".

(3 agosto 2009)

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